Gigi Datome a cuore aperto su Eurodevotion: io, il mio basket, l’Nba e Obradovic

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E’ sufficiente una manciata di secondi al telefono con Gigi per avere la conferma che si tratti di una persona, prima che di un giocatore, di categoria assai superiore alla media. La cortesia, il semplice modo di salutare e di presentarsi: tutti valori che fanno la differenza e ti fanno capire al volo che potresti parlare di qualunque cosa, oltre alla pallacanestro, e ricavarne piacere e soddisfazione.

– Buongiorno Gigi, grazie per l’opportunità. Da dove cominciamo? Magari dalla tua carriera, parecchio completa per la tipologia di esperienze vissute: ti senti oggi, alla soglia dei 31 anni, al tuo meglio tecnico, fisico e psicologico?

Direi di sì, oggi sto benissimo. Sono stato in NBA, che resta di livello superiore, ma oggi mi sento più protagonista e l’insieme di queste esperienze mi ha reso il giocatore e l’uomo che sono.

– Si può dire che, come accade ad esempio nel tennis, l’età della reale e perfetta maturazione si sia spostata un po’ più in là, diciamo appena dopo i 30 anni?

Certamente gli atleti hanno al giorno d’oggi una maggior cura del proprio corpo, il che porta in quella direzione. Io rimango scioccato da Ginobili, che riesce a fare la differenza a 40 anni in un panorama di atletismo clamoroso come quello in cui gioca. In Europa dico di sì, dai 30 in poi si può essere al top e continuare ad esserlo.

– Ripercorrendo le tappe della tua carriera tra Siena, Scafati, Roma, Detroit, Boston ed il Fenerbahce, c’è un momento od una scelta che ritieni essere stata fondamentale per diventare quello che sei oggi?

Sì, certamente sono due i momenti chiave. Scafati, dapprima. Ho scelto di mettermi in discussione, uscendo da una realtà di alto livello come era Siena allora, ma che mi stava stretta poiché non ero protagonista come mi attendevo. Sarò sempre riconoscente a Scafati per avermi accolto e permesso di crescere. Il secondo momento è la decisione di restare a Roma, decurtandomi lo stipendio per permettere alla squadra di essere più competitiva. C’erano altre squadre su di me, Bologna su tutte, che mi offriva di più come ingaggio, ma ho voluto restare e puntare su un’annata che poi si rivelò straordinaria, chiusa con la Finale ed il titolo di MVP, unico romano ed ultimo italiano.

– 5 anni a Roma ed una sola stagione iniziata e chiusa con lo stesso allenatore, ma pure a Scafati hai vissuto il cambio di guida tecnica: esperienza almeno particolare. Quanto aiuta poter lavorare in continuità con lo stesso coach come oggi al Fenerbahce? Se poi quel coach è Obradovic…

Ci ho ripensato spesso. Sai, oltre a quegli anni, perfino in NBA sono passato attraverso un cambio a Detroit per poi, una volta a Boston, trovarne un altro ancora. Ovvio che aiuti la continuità, per conoscenza e per reciproche condivisioni di progetti. Tuttavia devo dirti che avere avuto a che fare con tanti allenatori mi ha dato comunque una visione globale interessante. Poi è chiaro che anche gli stessi allenatori devono essere bravi. Spesso, con Obradovic, ci ritroviamo con chiamate uguali, dal campo come dalla panchina, tanto siamo abituati e preparati ad affrontare determinate situazioni che riconosciamo. Lui è grande perché noi sappiamo esattamente cosa fare e lui ci trasmette con grande chiarezza il suo messaggio tecnico.

– Tornando alle scelte della tua carriera, Milano pareva vicina a te qualche stagione fa, ma tu alla fine hai deciso per il Fenerbahce. Nel mondo Olimpia in tanti sono rimasti male (mi ci metto tra quelli, assolutamente…). Questione di Obradovic, soprattutto,  la voglia di competere per il massimo traguardo europeo o magari altro?

E’ stata la scelta giusta. La presenza di Obradovic, devo dire fondamentale, così come quella di Gherardini, con cui non avevo mai lavorato ma che era ed è garanzia assoluta di credibilità. Sapevo che era un grande Fener, c’erano giocatori come Sloukas, Bogdanovic, Antic e tanti altri che mi piacevano. I motivi furono tutti lì, ma ovviamente sopra ad ogni considerazione, se ti chiama Obradovic per darti un ruolo preciso nel suo sistema, come puoi scegliere altrimenti? A livello di denaro c’era perfino chi mi offriva di più, ma non è stata certo quella la motivazione.

– Parlando con Gherardini ed analizzando le scelte che il Fenerbhace ha effettuato negli ultimi anni mi pare di vedere una grande attenzione nella valutazione degli uomini, oltre che dei giocatori. Uomini che abbiano voglia di mettersi in discussione e di alzare il proprio livello individuale così come quello di squadra attraverso un lavoro duro. Così succede che si arrivi ad Istanbul come determinati giocatori e poi si cresca notevolmente. Cosa mi dici a riguardo?

Ad ogni livello devi scegliere dei giocatori con obiettivi chiari. Gente cui dare continuità nei propri ruoli e che, nell’insieme, dia una qualità morale alta al gruppo. Nelle difficoltà, come lo scorso anno, ad esempio, devi stringerti nel gruppo e trovare la forza nel lavoro, individuale come di squadra. Ognuno appunto con obiettivi precisi legati al proprio ruolo in quel gruppo.

– Nell’adattamento ai metodi ed al sistema tecnico di Obradovic si può parlare di una sorta di “rookie wall” al contrario? Mi spiego, un po’ di mesi di duro lavoro per capire bene cosa viene chiesto e cosa si deve dare, poi però i dividendi sono alti e mi pare che il coach sia maestro in questa gestione. Condividi?

Sì, l’impatto è notevole, c’è quasi un po’ di soggezione di fronte ad un allenatore come Zeljko. Poi capisci ed allora le cose vanno nella direzione perfetta. A me piace molto la sua chiarezza, va al punto senza fraintendimenti, è assai preciso. Inoltre, cosa straordinaria, si sente responsabile per i suoi giocatori, che sono sue scelte, ed è unico nel riconoscere le situazioni di difficoltà, senza che tu chieda nulla è lui che fa quello che ci vuole per aiutarti. Cerca di darti tutto.

– Stagioni vincenti, quelle turche, ma anche sconfitte che potevano lasciare il segno come quella di Berlino. Come l’ha approcciata psicologicamente il gruppo con il suo coach?

Neanche troppo male. Chiaro che soffrivamo, io in primis terribilmente, ma avevamo consapevolezza di essere in tanti nuovi: Udoh, Antic, Kalinic, Sloukas, Dixon ed io. Essere arrivati sino alla Finale è stato un bel segnale e da lì siamo ripartiti, tutti insieme. Ovvio che perdere sia stato pesante, ma avevamo una visione comune, sapevamo di potercela fare e pur attraverso i grandi problemi della stagione seguente, l’infortunio di Bogdanovic su tutti, ma anche le aspettative su una F4 casalinga che tutti davano per scontata, siamo stati capaci di farlo. Ed è stato bellissimo ritrovarci lì, dopo un anno, davanti a tutti, dopo un percorso durissimo, in cui tra le tante cose abbiamo vinto un Playoff con il Pana espugnando due volte Oaka.

– Il lavoro sul lato debole che fate in attacco è cosa che mi abbaglia ogni volta che lo vedo, e di gare vostre ne ho viste almeno 20. Mai fermi, sempre perfettamente in sintonia, pronti per l’attacco come per l’eventuale seguente possesso difensivo. Ci lavorate così tanto?

Neanche tantissimo, è armonia che deriva dal gioco e dalla reciproca conoscenza. Il coach ci fa sempre notare come la difesa sul lato debole debba  guardare anche la palla, di conseguenza, muovendoci tanto e correttamente, diamo agli avversari angoli diversi di visuale che necessitano di maggior attenzione ed impegno. Obradovic insiste moltissimo sul togliere i riferimenti. Dopo anni insieme so bene come Sloukas piuttosto che Dixon mi possono trovare con un passaggio: è la chiave di questa sintonia.

– Final 4 vuol dire Zalgiris per voi. Mi è parso che nelle due sfide di stagione regolare siano stati quelli che vi hanno creato più problemi tecnici, non tanto nella sconfitta interna, figlia anche di vostri errori, quanto nella vittoria di Kaunas, dove ci è voluto un Fener extra lusso per venire a capo dei lituani. E Jasi mi pare la cosa più vicina a coach Obradovic che ci sia, anche come linguaggio del corpo. Sei d’accordo?

E’ vero, è stato difficile. E sì (ndr sorride), è vero che si somigliano. Tante situazioni simili, atteggiamenti molto vicini, si rispettano e si conoscono molto. Ma c’è molto di Sarunas in questo Zalgiris, non è certo un “copia ed incolla”. E’ una filosofia di gioco molto vicina alla nostra, sono intensi, fisici, noi siamo più lunghi e dobbiamo lavorare sui loro punti deboli. Importante sarà arrivare sani, come lo scorso anno, nel momento più importante.

– Sergio Llull può essere la variante impazzita ed inattesa che sposta a Belgrado? In fondo non si sapeva nemmeno se potesse esserci ed invece oggi magari avremo uno Llull in più ed un De Colo che non sappiamo se e come ci sarà…

Certamente sì, per valori tecnici e personalità. Ho seguito molto il suo recupero, sono anni che ci conosciamo, sin dai 18 anni. Ero scettico sul suo rientro per i Playoff ed invece eccolo subito “alla Llull”.

– Parlando un po’ di Italia, sarò un po’ provocatorio. Ho visto nel weekend Jayson Tatum giocare e dominare una gara di Playoff NBA. In fondo ha la stessa età in cui tu giocavi pochissimo… Datome stava allora al basket italiano come Tatum sta a quello USA, però uno gioca al top e l’altro invece scelse di andare a giocare ad un livello inferiore. E’ questo il  problema principale dei giocatori italiani?

Innanzitutto la responsabilità del paragone tra me e Tatum te la prendi tu, non certo io…

– Ok, volentieri, ma ho premesso che si trattava di provocazione, dai…  Quindi questi italiani che non sono più di livello e magari scaldano le panchine fino a 25 anni, considerati giovani quando non lo sono più?

E’ sentenza difficile. Non siamo in Serbia, dove sei giovane tra 17 e 19, poi basta, ma ti dico una cosa sicura: la generazione prima della nostra lavorava molto di più (ndr l’esatta terminologia usata parlava di un “si faceva il c…”). Poi bisogna stare attenti ad affibbiare etichette e giocare con le carriere. Di sicuro ci sono pochi casi di grandi intuizioni oggi in Italia, anche a causa della cultura dell’allenatore che rischia il posto ad ogni rovescio, quindi si affida al veterano o all’americano di turno. C’è anche altro e non è poco. Bargnani, Gallinari, Belinelli ed io siamo stati tutti responsabilizzati e valorizzati da coach stranieri. Blatt, Djordjevic, Repesa e, nel mio caso, Filipovski. Tanti altri ottimi giocatori come Aradori, Polonara o Peppe (Poeta), hanno iniziato a giocare tanti minuti più  per necessità che per convinzione tecnica in determinate situazioni. Sono tante cose su cui riflettere ed è un peccato perché, non me ne voglia nessuno, oggi il livello nazionale permetterebbe le condizioni migliori per investire e prendere qualche rischio maggiore sui giovani.

– Sei stato di qua, sei andato di là e poi sei tornato: quanto è ancora largo l’oceano?

La NBA resta di un altro livello, per atletismo e talento. La “regular season” è di tante partite ed alcune vengono giocate non esattamente al massimo e non sono divertenti. E’ cambiato il fatto che non c’è più diffidenza verso i giocatori stranieri. I 450 atleti NBA non sono i migliori in assoluto, mentre in Europa ogni gara ha un peso specifico importante ed i giocatori ne riconoscono maggiormente il valore per la pressione dei tifosi e dell’ambiente. Poi dipende anche da dove giochi. Ad esempio Detroit e Boston furono due esperienze dal valore assai differente da questo punto di vista.

– Si è dibattuto a lungo sulla stagione di Eurolega col nuovo formato. Chi dice che è favorito chi gioca in  torneo nazionale più modesto, ed allora Milano, Bamberg, Stella Rossa e Zalgiris avrebbero vantaggi, e chi sostiene il contrario. Ma non è di aiuto avere a che fare con un campionato di livello più elevato, in modo che l’asticella resti sempre in alto? Sempre che con Obradovic quell’asticella possa mai abbassarsi…

Appunto… E sì, da giocatore lo preferisco. In fondo siamo alle F4 noi, Real e CSKA, rappresentanti dei tre campionati più difficili. Ma soprattutto l’asticella non è un interruttore che si accende o spegna alla bisogna. Per fare questo però devi essere veramente profondo. Noi siamo in 15 e ruotiamo perfettamemnte, con tre giocatori importanti che riposano ogni gara in Turchia. Fuori dai nostri 12 di Eurolega c’è spesso Sinan Guler, un campione. Se puoi fare così, il livello di attenzione resta sempre altissimo.

– Un’ultima cosa, che non posso non chiederti e riguarda Obradovic. Di lui si sa più o meno tutto, attraverso quasi 30 anni ai vertici. Ma c’è qualcosa che ti ha colpito particolarmente vedendolo lavorare nel quotidiano?

Sin da subito sono rimasto scioccato per la sua “fame”. E’ il più affamato di tutti, senza dubbio. E’ un allenatore di grandissima sensibilità ed ha parole, come già ti accennavo, per chiunque ne abbia bisogno, senza che glielo si debba chiedere. E’ infine di una notevolissima umiltà. Mai ci ha fatto pesare il suo essere Obradovic. Una cosa si fa perché è la migliore  e perchè ti spiega come e perché va fatta, non certo solo perché lo dice lui.

Idee chiare, parole semplici e mai scontate. L’universo di Gigi è sicuramente di grandissimo interesse ed allora si comprende più facilmente il percorso ininterrotto verso l’eccellenza del gioco. Con sensibilità ed umiltà. Come il suo coach.

 

 

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alberto marzagalia

Due certezze nella vita. La pallacanestro e gli allenatori di pallacanestro. Quelli di Eurolega su tutti.
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