Dubai in Eurolega con un super-team? Ecco perché si può fare
Quaranta milioni di euro per costruire una squadra da zero, in un’estate, e presentarsi già da contender al primo anno di Eurolega. Precisazione: 40 milioni di euro netti. Un budget mai visto nella storia del basket europeo.
Gli ultimi rumors che trapelano dalla Spagna tratteggiano uno scenario potenzialmente rivoluzionario per il prossimo futuro. Dubai vuole una squadra in Eurolega. La vuole subito, per poter organizzare in casa, nella nuovissima Coca-Cola Arena, il trittico di Final Four tra il 2024 e il 2026. E la vuole forte, fortissima, per convincere i vertici di ECA della bontà di un progetto che potrebbe stravolgere gli equilibri della pallacanestro del Vecchio Continente.
Vasilije Micic, Shane Larkin, Kostas Sloukas, Mike James, Nikola Mirotic, Walter Tavares. Sono i nomi delle superstar che gli sceicchi degli Emirati Arabi starebbero cercando di attirare in Medio Oriente con offerte economiche faraoniche. Come irrinunciabile è la proposta rivolta a Eurolega per ottenere la licenza che garantirebbe la possibilità di fondare una nuova squadra e organizzare le già citate Final Four: 50 milioni di euro all’anno, una maxi-sponsorizzazione garantita da Emirates Airlines, cinque volte superiore a quella che può permettersi oggi Turkish Airlines, in scadenza nel 2025. Ve la immaginate una nuova squadra nel deserto con tutti quei campioni a roster?
Lo sport unito al business: perché l'Eurolega guarda a Dubai
Il potenziale ingresso di Dubai in Eurolega è un tema attualissimo e discusso. Guardato con occhi sospettosi dai puristi della tradizione. Ma con sguardo altrettanto attento e interessato da chi invece ha abbracciato una filosofia più moderna dello sport, indissolubilmente legato al concetto di business.
Gli Emirati Arabi e Dubai non sono una terra di basket. La nazionale è tra le più deboli del continente asiatico. Non ha mai partecipato ai Mondiali, non si è qualificata alle ultime quattro edizioni dei Giochi asiatici (l’equivalenti di Eurobasket) e i migliori risultati risalgono ormai agli anni ’90, con il quinto posto raccolto nel 1997. Ma quello che a prima vista sembrerebbe un ostacolo enorme, potrebbe invece trasformarsi in una grande opportunità di sviluppo.
La nomina di Dejan Bodiroga al vertice di ECA al posto di Jordi Bertomeu intende aumentare il valore del basket europeo. Fondere gli aspetti sportivi e quelli economici. Ragionare anche in termini di business. La modifica dello scacchiere di Eurocup, base per la costruzione della nuova Eurolega, muove in questa direzione.
Nelle scorse settimane abbiamo approfondito i fenomeni di espansione in nuovi mercati, che siano grandi città ancora mancanti nel panorama cestistico (Londra e Parigi) o realtà di Paesi emergenti con progetti futuri solidi (Cluj e Prometey). E l’Eurolega stessa si tiene stretta Monaco, piccolo avamposto in una terra inesplorata ma in grado di costruire, già al suo secondo anno, un team da Final Four. E allora, perché non tastare anche le acque degli Emirati Arabi?
Coppa dei Campioni: un passato con altre squadre extra-europee
Certo, avere una squadra a Dubai, in un Paese così lontano dall’Europa a livello geografico, culturale e sociale può sembrare strano. Ma in realtà, se guardiamo alla storia passata della vecchia Coppa dei Campioni, antesignana dell’attuale Eurolega moderna, troviamo tante squadre extra-europee. Tra il 1958 e il 1982, hanno partecipato club provenienti da Siria, Libano, Marocco ed Egitto. Per due stagioni consecutive (1970-71 e 1971-72) ci sono state addirittura tre squadre extra-europee presenti contemporaneamente: Jeunesse Sportivo Aleppo (Siria), FUS Rabat (Marocco) e Al-Zamalek (Egitto). Vero, con risultati modesti, ma comunque parte dello scacchiere del grande basket europeo.
Un'Eurolega di qualità in un libero mercato
Eurolega è un campionato semi-chiuso. Non meritocratico. O meglio, non meritocratico per il mero risultato sportivo. Per partecipare occorre sì schierare una squadra competitiva, ma avere anche strutture di qualità, ampie disponibilità economiche e possibilità di investire in un solido progetto futuro. Insomma, dicendola all’americana, top-management e top-facilities.
Dubai risponderebbe a tutti i requisiti. Avrebbe un budget enorme da investire per la squadra. Un’arena fiammante da 17.000 posti. Un aeroporto collegato con tutte le maggiori città europee. Strutture ricettive e di accoglienza all’avanguardia, sviluppate grazie al boom turistico moderno. Ma, soprattutto, avrebbe una grande legge dalla sua parte: quella del libero mercato.
Condannare a priori un progetto perché distante dalla tradizione potrebbe rivelarsi una scelta poco oculata in un momento storico di allargamento degli orizzonti. Se, come abbiamo visto qualche giorno fa, Alec Peters immagina una nuova grande Eurolega slegata dal concetto dei campionati nazionali, allora perché non pensarla anche capace di superare i suoi stessi confini geografici?
Salary-cap: come evitare un mercato drogato
Le immense disponibilità economiche degli sceicchi di Dubai porterebbero a un potenziale innalzamento della concorrenza per un’Eurolega sempre più competitiva e appassionante, com’è già successo negli ultimi anni dall’introduzione del girone unico. Il numero di partite raddoppiato o triplicato ha portato i club a lavorare in maniera virtuosa e oggi abbiamo uno dei tornei più qualitativi ed equilibrati di sempre.
Ma c’è anche un lato oscuro della medaglia. Perché sarebbero disponibilità economiche impareggiabili, al momento, anche superpotenze di Spagna e Turchia, con un grosso rischio di effetto collaterale. Drogare il mercato con i petrodollari. E creare distorsioni già viste nel mondo calcistico dell’ultimo decennio.
Il libero mercato è funzionale fin quando non crea un monopolio, ma abbiamo la fortuna di poterlo modellare seguendo l’esempio di chi si è già confrontato in tempi passati con lo stesso problema. L’NBA vive da decenni con un tetto salariale, copiato ma con molte falle anche dalla FIFA proprio di fronte all’esplosione delle bolle degli oligarchi russi, cinesi e mediorientali. Un hard-cap, ossia un tetto salariale impossibile da aggirare, potrebbe essere una soluzione per evitare che il sistema esploda e collassi su se stesso.