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Malcolm Delaney e Olimpia, storia di un amore incompiuto

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Amore, perchè amore è stato. Quello di Delaney nei confronti dell’Olimpia, profondo e sentito, e quello di Milano per il play di Baltimora, decisamente più conflittuale e controverso. Passioni forti, in ogni caso.

Pochi giorni fa è arrivata la conferma della chiusura dell’avventura biancorossa dell’americano, già preannunciata nelle dichiarazioni del diretto interessato di inizio stagione, che si è concretizzata tragicamente con l’ennesimo sfortunato incidente del suo biennio milanese.

L’ex Atlanta Hawks non riuscirà dunque a recuperare per la campagna playoff della truppa di Messina, anticipando così l’addio che aveva previsto per l’estate.

In questo articolo cercheremo quindi di ripercorrere, rivivere, ridiscutere e infine in qualche modo valutare il cammino di uno dei giocatori più discussi dell’Olimpia degli ultimi anni.

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LE PREMESSE

Per raccontare una storia, bisogna indagarne le basi. Basi che, nel caso del 23, sono state parecchio incisive perché hanno delineato immaginario e aspettative che si è portato dietro e perché ne hanno motivato l’arrivo in Italia.

Delaney è stato un vero e proprio califfo di Eurolega, ai tempi di Kuban era un giocatore come pochissimi nel panorama europeo. Da lì l’NBA, la Cina, quindi il Barcellona.

Quello in blaugrana è un anno particolare: arrivato in corsa dopo la lunga attesa di un ritorno in America, il folletto di Baltimore non si sentirà mai valorizzato, complice anche un rapporto mai sbocciato con coach Pesic.

L’impatto è certamente inferiore all’ultima versione europea dello statunitense, nonostante le assenze prolungate di Huertel e Pangos che non viene investito della fiducia che lo innalzerebbe a riferimento forte del progetto. Che non se la sia meritata o che non l’abbia ricevuta, è difficile a dirsi.

Sta di fatto che il culmine della sua annata arriverà proprio in una celebre prestazione contro l’Olimpia, in cui infilerà 26 punti, grazie ad uno scintillante 6/9 da tre. Con l’interruzione del campionato però, Delaney non farà ritorno in Spagna per la chiusura dell’Acb, sancendo un addio non certo all’acqua di rose con l’ambiente catalano.

Proprio in quei mesi serpeggia il seme del matrimonio che vestirà Delaney di biancorosso.

Contestualizziamo la vicenda. Milano è nel pieno della campagna di rilancio voluta dal duo Messina-Stavropoulos e guarda al mercato alla ricerca di un alter-ego di Sergio Rodriguez, scottata dalla scommessa persa di Shelvin Mack, poi rimpiazzato da un poco convincente Keifer Sykes.

Quello di Delaney è un nome fortissimo nella mente della dirigenza, tanto che le trattative e l’interessamento nei suoi confronti divengono pubbliche già ad aprile del 2020, solo un mese dopo la serranda imposta dal Covid. Si concretizzerà quindi un investimento importante, sarà tra i primi dei nuovi arrivi a sposare la causa biancorossa.

Causa che sposerà con convinzione, accolto da Messina con grande favore. Si tratta di un handler di talento ed esperienza, che incarna il profilo tecnico – può togliere pressione dalle spalle del Chacho e innalzare la pericolosità offensiva – e umano necessario.

Delaney infatti sceglie Milano sicuramente, non prendiamoci in giro, per un’offerta economica che lo aggrada, ma di certo anche perché si trova fortemente in linea con le ambizioni societarie. Il giocatore ha svolto nella sua carriera molto spesso scelte indirizzate su un approccio preciso che è secondo me lampante in una dichiarazione con cui giustificò al tempo la scelta del Lokomotiv.

Non è solo una questione di soldi, per me è importante scegliere le squadre che non hanno chance di vittoria e trasformarli in vincitori. 

L’Olimpia di questo aveva bisogno, di un cambio di mentalità, che poteva essere rappresentato da Hines e Rodriguez, ma anche da un Malcolm Delaney. Non è un caso che il ragazzo di Baltimore abbia spesso negli anni ribadito quanto creda nelle ambizioni del progetto milanese.

Gli ingredienti per un contributo di spessore c’erano tutti quindi, con l’arrivo di un atleta che bramava da tempo un ruolo da protagonista tale e una squadra che aggiungeva, di giorno in giorno, tasselli intrigantissimi.

Colui che diceva, lesinando in modestia, alla sua conferenza che con la libertà di creare e la palla in mano, la miglior guardia in Europa sono io” giungeva all’ombra della madonnina come riferimento importante, ben più sulla carta di gente come Punter e Shields.

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L’AVVENTURA IN OLIMPIA

La storia racconta di due anni complessi, vissuti sulle montagne russe.

La primissima parte del suo viaggio in biancorosso è quella che più rispecchia le aspettative di cui sopra, il momento in cui più di altri Delaney è riuscito ad essere nel pieno delle sue possibilità una risorsa offensiva efficace e determinante.

Tuttavia gli ostacoli sono stati sorti numerosi sin da subito, dal primo infortunio riportato in finale di Supercoppa, alla distorsione con il Real un mese dopo. Nel pezzo linkato qui sotto avevamo raccontato la sua storia fisica, in occasione dell’infortunio occorso con l’Asvel, cui manca soltanto la lesione addominale di un mese fa.

Nonostante i travagli, fu probabilmente tra dicembre e gennaio della passata stagione il periodo d’oro di MD23 con le scarpette rosse, cui seguirà una primavera decisamente meno incoraggiante, quando i dolori torneranno a corrodere sottopelle la point-guard del Maryland.

L’intervento al ginocchio lo restituirà a Milano per i playoff di Eurolega, nei quali tornerà a far vedere la miglior versione di sè stesso, contribuendo alla conquista delle storiche Final Four con una media di 16,2 punti nella serie contro il Bayern. Poi, di nuovo il calo, unito a quello complessivo di squadra sull’onda di quell’acre amarezza con cui si è conclusa l’annata biancorossa.

Il nuovo anno si apre con rinnovate speranze, dopo l’estate di riposo, con le necessità richieste dalla partenza di Punter, ma anche le ardenti ambizioni di lasciare bene in quello che si prospetta come l’ultimo anno da professionista nel Vecchio Continente. La condizione stenta ad arrivare, ma Malcolm riesce a carburare e infila un buon filotto di prestazioni ad Ottobre. Il premio? Nuovo stop per un problema alla coscia.

L’americano guarisce, torna ancora in campo, arriva un periodo di “pace fisica”, per lo meno apparente, che intercorre tra dicembre e lo scorso aprile in cui è riuscito raramente ad incidere come avrebbe dovuto. Forse questo spezzone ha rappresentato uno dei momenti più negativi della sua esperienza milanese, culminato con i malumori del Forum durante la serie con l’Efes.

Delaney nell’arco di tempo di due anni ha fatto mancare raramente, anche nei momenti più difficili, la sua difesa sulla palla, per la quale è stato fondamentale nell’occuparsi spesso dei più pericolosi handler avversari, tuttavia, oltre all’assenza di continuità, in attacco ha faticato tremendamente, per scelte e iniziative, nel playmaking e nella costanza realizzativa.

Senza affidarci a superficiali e insensate analisi, etichettando il giocatore come scarso o stupido, è secondo me ben più intelligente constatare che un atleta del genere, che è sempre stato più una combo che un play di ruolo, con tutte le mille vicende fisiche, ha perso la fiducia e la fulmineità del primo passo, a partire dalla quale poteva inventare gioco.

La difficoltà di creare vantaggio palla in mano, lo ha portato a fermarsi a palleggiare senza nerbo e a far decadere il suo contributo offensivo. Non essendo un play puro, deve far forza sulla sua pericolosità offensiva per generare attacco. Si è ritrovato quindi con armi spuntate.

Questo non ne cancella i limiti caratteriali e, perchè no, tecnici, ma implica che questi siano venuti a galla in condizioni che lo hanno portato fuori dalla sua zona di confort.

Ci sono sicuramente errori e demeriti personali nei momenti down di Delaney, ma è comunque giusto ricordare quanti siano stati i momenti fondamentali dell’epopea, soprattutto europea, di Milano in cui l’americano è stato protagonista.

Il più eclatante è certamente l’iconico buzzer beater della Yad-Eliyahu, ma se ne possono ricordare tanti altri. La serie con il Bayern, la gara di Barcellona quest’anno, tanti tiri dal peso specifico importantissimo messi a segno nel crunch time.

Certo, ci sono stati anche errori in momenti fondamentali e scelte sbagliate anche quando contava, però ritengo che chi crede che il percorso dell’Olimpia messiniana degli ultimi due anni sia di un qualche valore – e chi vi parla si iscrive senza esitazione in questa categoria – non può esimersi dal riconoscere l’importanza di Malcolm Delaney nel process biancorosso.

A prescindere dal contributo in relazione alle aspettative, a prescindere dalla mentalità altalenante, a prescindere dalle difficoltà tecniche, a prescindere da tutte le legittime critiche che si possono fare sul profilo del giocatore, è necessario riconoscere un reale e consistente merito, più o meno decisivo, nell’apporto di MD ai successi di squadra di questi anni.

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IL LASCITO DI FOE

Foe“, lo pseudonimo con cui si fa chiamare sui social, raccoglie perfettamente la sua essenza.

Da una parte, come da traduzione letterale, “nemico”, “avversario”, ci richiama il suo lato sicuramente polemico, spavaldo e sicuro di sè, a volte persino testardo e controverso, dall’altra, nel significato dell’acronimo, “family over everything“, ricorda un ragazzo con profondo senso d’appartenenza e propensione al sacrificio.

Un dualismo che racconta i sentimenti contrastanti che suscita questo giocatore, una dicotomia che racchiude molto bene cos’è stato Delaney a Milano.

Un uomo che ha fatto discutere, ma che nonostante tutte le sue difficoltà si è calato profondamente nella realtà Olimpia ed è stato una delle anime del gruppo squadra, pienamente in sintonia con coach e compagni.

Crudele, che si debba mettere un punto senza neanche permettergli un riscatto.

Per definire il percorso del nativo del Maryland, allora vi propongo una provocazione. Delaney ha rappresentato lo spirito Olimpia?

Secondo me si. Certo, di primo acchito non sembra il tipico giocatore di lotta, di sudore, di lacrime e sangue, ci sono state situazioni in cui è apparso indolente o supponente, che non vanno dimenticate e soppresse.

Però nel sacrifico, nell’attaccamento alla squadra, il 33enne di Baltimore ha lasciato qualcosa, tra i suoi mille problemi a Milano ha snaturato sè stesso, piegandosi a fare alle volte un ruolo quasi unicamente da stopper difensivo, laddove era stato prima donna e privilegiato fromboliere in attacco per tutta la sua carriera. E’ stato necessità più che scelta? Indubbiamente, ma ha comunque comportato sofferenza e impegno.

Allora, dato quanto abbiamo visto, si tratta di un rimpianto che replica il caso Nedovic del biennio precedente? Sicuramente si, soprattutto per le ottime premesse che si sono via via sfaldate con il logorio fisico. C’è però da dire che le giocate di Foe, anche favorito da un contesto di squadra ben più solido e fornito, hanno inevitabilmente lasciato un’impronta più importante di quella dl serbo sul percorso di Milano.

Alla luce del suo contributo è stato un acquisto sbagliato? Credo di no, date le premesse la scelta aveva un suo senso. Il giocatore era valido e il suo degradamento era difficilmente ipotizzabile, anche se sicuramente era illusorio pensare di trovarsi in casa il fenomeno dei tempi di Kuban.

Nonostante questo, il suo percorso ha comunque avuto molti momenti positivi favoriti dal solidissimo legame che lo ha vincolato ad Ettore Messina, che ha avuto i meriti di saperlo far rendere nonostante gli acciacchi. Si è affidato a lui in tante occasioni, conscio del ruolo di peso che aveva pensato per l’americano agli albori di questo ciclo, talvolta persino troppo convintamente, ma nell’unico modo per drenarne le possibili e necessarie risorse.

L’Olimpia dovrà sicuramente fare un passo avanti nel ruolo, cercando maggiore affidabilità e soprattutto capacità di creazione ed inventiva, che Delaney non ha saputo provvedere con costanza.

Il suo futuro? Difficilmente lo rivedremo in Eurolega e, a questo punto, è anche faticoso ipotizzare con certezza un più generale ritorno sul parquet.

Lo statunitense saluta così con MVP di Supercoppa e di Coppa Italia, tre trofei, una Final Four e un playoff di Eurolega, ma soprattutto con un addio che sa di incompiutezza e che lascia sicuramente spazio a rimpianti.

Photo credit: euroleague.net, olimpiamilano.com, eurosport.it

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