"Quando perdi sei un coglione, quando vinci un eroe"... se il giornalismo perde la bussola
La Virtus perde una partita al fotofinish, 79-81, contro il Panathinaikos, la squadra che, ad oggi, si è dimostrata la migliore dopo i galacticos del Real Madrid, classifica alla mano.
Un primo tempo sofferto, ma al quale le vu nere sono rimaste aggrappate, contro le percentuali intonse e fantascientifiche dei greci. Poi la reazione straordinaria della squadra virtussina, di voglia, carattere e tenacia. L'ennesima rimonta, da -17, eroica, come già tante alla Segafredo Arena. Infine qualche dettaglio che va fuori posto, com'è normale che possa succedere, e una vittoria (che sarebbe stata meritata) che sfugge sul filo di lana. Poi proprio quel "filo" su cui è stata fatta una domanda a coach Banchi nella conferenza stampa post-partita.
Il mese di marzo ha visto la Virtus raccogliere 5 sconfitte su 5 partite in Eurolega: e allora, sui portici, come spesso accade in una piazza ambiziosa come quella bolognese, giù nuvoloni e temporali, metaforici e non. Il 14/5 del girone d'andata presto dimenticato, archiviato, sorpassato. Come se fosse parte di una competizione distante un'era geologica e ormai lontana. E quindi tutto nero, cupo, nefasto, improponibile e via dicendo.
Non staremo qua a raccontare come l'Eurolega virtussina, comunque vada a finire (mancano solo due gare), sia andata ben oltre le aspettative: per un roster corto, che ha dovuto subire un ridimensionamento in estate, con numerosi veterani nei ruoli chiave, con un allenatore che arriva in corsa a metà settembre, raggiungere la post-season in una competizione brutale come l'Eurolega, dopo aver fatto un girone d'andata al limite del magico, è qualcosa di stra-ordinario. Nel senso etimologico del termine: che va oltre l'ordinario.
Eppure, appunto, nel momento in cui arriva un normale e prevedibile calo fisiologico, un po' per gli infortuni, un po' perché succede a tutti nella competizione (nessuno escluso), un po' perché i giocatori sono costretti a ritmi insostenibili, ecco che le critiche arrivano puntuali e rovinose.
Che arrivino dai tifosi è cosa ordinaria e nella logica delle cose. Il tifoso vorrebbe sempre vincere, vuole sognare e i ragionamenti troppo razionali, realistici e delle volte fatalistici proprio non gli vanno giù. Magari consciamente li accetta, ma dentro di sé proprio non ce la fa a non sognare in grande. E quindi ragiona di pancia, ed è giusto che i tifosi siano fatti così. Perché il loro attaccamento ad una squadra e ad un gruppo di giocatori è tanto bello e profondo quanto irrazionale. Questo è il tifoso.
Il giornalista e gli organi di comunicazione/stampa in toto devono essere, invece, qualcosa di diverso. Eppure, basta una vittoria perché si parli di "apoteosi", "trionfo", "paradiso" con annessi aggettivi della serie "superlativo", "irreale", "sontuoso" e via dicendo. Bastano una sconfitta o una serie di sconfitte perché tutto diventi "crisi", "baratro", "periodo nero", "involuzione" e così a lungo.
Tutto questo dimenticando che ogni partita va inserita all'interno di un percorso che, come ricordano quelli bravi, è una maratona e non uno sprint. Solo che considerare ogni partita in relazione al tutto, proponendo un'analisi sensata e razionale, costa tempo, impegno, fatica. E forse comporta likes in meno (che tanto piacciono), interazioni, engagement e tutti agli annessi e connessi.
Tuttavia, il nostro obiettivo, tra chi è professionista e chi meno (nel senso spicciolo di chi lo pratica come lavoro e chi invece lo fa, per forze di causa maggiore, per hobby o passione o seconda occupazione), è di cercare di creare un ponte tra società e tifosi, nel tentativo di poter trasmettere, a volte semplificandola e rendendola più comprensibile, quella complessità che un tifoso (per ragioni di tempo e anche di legame affettivo) non può assimilare nella sua interezza. Il giornalista ha quindi un ruolo fondamentale: è una bilancia il cui equilibrio è tanto difficile quanto delicato. Se la bilancia pende troppo da uno dei due lati si crea una rottura, con tutti i problemi che ne derivano.
Ecco, quella bilancia negli ultimi tempi sembra sempre di più pendere verso il lato dei tifosi, ovvero verso l'utenza. E allora è normale che, nel giro di poche ore, due allenatori del calibro di Jasikevicius e Banchi rivolgano due critiche diverse, ma allo stesso modo incisive a chi pone loro le domande.
In particolar modo le parole di coach Banchi, sempre diretto al punto senza troppi fronzoli o sofismi, ci hanno fatto riflettere su questo punto e sulle righe poi messe qui sopra nero su bianco. Raccontare lo sport, e in questo caso la pallacanestro, costantemente con toni sensazionalistici, perdendo il senso della misura (e, delle volte, dell'etica) e di quello che dovrebbe essere un fine professionale, crea queste fratture e, soprattutto, abitua l'utenza a un tipo di fruizione di cui poi diventa assuefatta e ingorda, rendendola poi difficilmente rieducabile.
Sappiamo che il discorso è complesso e che questi pensieri sparsi non possono certo trattare la questione in modo esauriente e completo. Però, in ogni caso, la questione è aperta, ci tocca da vicino e quindi capiamo il piccolo sfogo del coach bolognese.
Nel ristabilire un legame vero, vivo e non disconnesso tra clubs e utenza, la moderazione è la chiave essenziale. A costo di ricevere qualche like o qualche commento esacerbato in meno sui social, ma provando a fare un lavoro, certo più difficile e certosino, che aiuti le società a rendere più chiare le dinamiche di una stagione, a dare dignità alla classe dei giornalisti e ad offrire all'utenza un prodotto fededegno, chiaro, onesto e ricco di spunti e riflessioni. Solo così quel ponte tra quei tre livelli di comunicazione può essere saldo e resistente.
Altrimenti ne scaturiscono tutta quella serie di incomprensioni, devianze e rotture che provocano una difficoltà, che sarà sempre maggiore, a comunicare e a capirsi tra le diverse parti. Sappiamo che tutto questo può suonare retorico e stucchevole, ma, ogni tanto, vale la pena ricordarsi quali siano le soluzioni migliori per svolgere il proprio compito, sapendo che si può sbagliare ma anche avendo sempre bene in mente quale sarebbe la direzione da percorrere.
Nessuna lezione a nessuno. Solo un memorandum, in primis a noi, per ricordarci quanto il ruolo che ci siamo in parte assunti sia complesso, laborioso, non immediato, ma anche bellissimo.