Metti una sera con Pablo Laso che ti spiega il gioco...
Pablo Laso a tutto campo in quella che doveva essere un' intervista e che è diventata una splendida ed istruttiva conversazione sul gioco.
L'abituale cortesia, lo sguardo giustamente fiero su un passato senza pari ed un futuro tutto da scrivere.
Il Pablo Laso che abbiamo incontrato dopo la gara di Bologna e prima di quella di Milano è il fuoriclasse della panchina di sempre. Realista su quanto c'è da costruire oggi, consapevole che il mondo può girare all'improvviso anche se sei reduce da 11 anni nei quali hai disputato 44 competizioni, giocando la finale in 33 occasioni e vincendo 22 titoli con 659 vittorie in 860 partite allenate coi "blancos".
In realtà doveva essere un'intervista, ma "baciati dalla fortuna" ne è uscita una conversazione di quasi un'ora e mezza toccando decine e decine di temi riguardo il gioco, tanti suoi personaggi ed il ruolo dell'allenatore.
Francamente fa un certo effetto vedere Pablo con uno stemma sul petto che non sia quello della "casa blanca" ed ogni tanto sono lì a fissarlo come se fosse qualcosa di alieno. "La leyenda" oggi è in Baviera e si parte proprio da lì, da un campionato diverso, con ritmi ed organizzazioni differenti.
«Sai che è molto interessante vedere tutte le differenze che ci sono tra i vari tornei. Io guardo tantissimo basket, mi interessa tutto, e devo dirti che oggi la lega tedesca presenta caratteristiche molto particolari. Se guardo Liga e LBA vedo cose simili, sebbene il campionato spagnolo resti di un livello superiore, vedo giocatori che potrebbero adattarsi senza problemi in entrambe le leghe, mentre quello tedesco è ben differente, con un impatto delle PG molto più importante. Ritmo, triple, è molto interessante e per me è una fortuna vivere questa esperienza».
E quel ritmo incessante arriva magari dopo una settimana di doppio turno in Eurolega e ti trovi un avversario che ti aggredisce dopo che non hai avuto nemmeno un giorno per preparare la gara e sei stanchissimo anche per i viaggi...
«Esattamente. Allora ti devi adeguare e devi cercare di gestire le cose al meglio con l'energia che hai a disposizione».
Si può parlare di una piccola NBA quindi per la lega tedesca?
«In un certo senso sì. E ti aggiungo che è un campionato così differente oggi dagli altri che alcuni giocatori quando vanno fuori dalla Germania necessitano di un periodo di adattamento».
Il discorso si sposta direttamente sul Coach e sul fatto che sia certamente inusuale ai giorni nostri vedere un allenatore sulla stessa panchina per 11 anni. Ma c'è un momento in cui Pablo Laso ha realizzato quanto fosse strano sedersi su una panchina diversa dopo la leggendaria esperienza madrilena?
«Un momento particolare non c'è stato, è stato un processo. Il periodo senza allenare dello scorso anno mi ha aiutato molto. Guardando tantissimo basket, come dicevo, ho analizzato il gioco da un punto di vista differente, senza dover preparare la gara ma solo raccogliendo informazioni e confrontandomi con le idee che avrei messo in campo io. In un certo senso l'assenza dal campo mi ha aiutato da questo punto di vista».
«Poi è arrivata la firma al Bayern ed allora mi sono buttato in questa nuova avventura cercando di capire quali fossero le richieste e le esigenze del mio nuovo club, cercando di capire cosa si potesse fare e cosa potessi dare di diverso io in relazione al mio ruolo ed alla mia esperienza».
A proposito di passato, magari la notte del ritorno al Wizink Center è stata proprio quella in cui realizzare al meglio tutto ciò...
«Guarda, mi sono emozionato tantissimo per una ragione particolare: l'affetto del pubblico. In questi casi possono esserci celebrazioni particolari, ma nulla è sincero e ti può emozionare come la reazione della tua gente, che è spontanea e non richiesta. Nessuno è obbligato ad applaudire per 5 minuti, se lo fa è perchè ci crede. Il pubblico di Madrid, storicamente un club dove vincere è importantissimo, mi ha regalato qualcosa di unico indipendentemente da vittoria o sconfitta ed allora in quel momento ho realizzato il valore di quello che avevo fatto e che avevo lasciato a questa gente».
Ecco, ritornando a Monaco c'è un direttore serbo (Pesic), un GM italiano (Baiesi) ed un Coach vitoriano: una grande esperienza diffusa ed un mix di culture cestistiche che dà ampio respiro ma anche la necessità di trovarsi su punti comuni. Come mi descrivi questa "squadra"?
«Importantissima. Ed è importantissimo il fatto che ci siano competenze precise per ognuno di noi. Le idee tecniche, la possibilità di arrivare a questo o quel giocatore, le disponibilità finanziarie per farlo, le difficoltà che possiamo trovare sul mercato di fronte ad altre realtà che mettono sul piatto molto più denaro per atleti che sarebbero nei nostri desideri. Il confronto è fondamentale ed avere idee differenti aiuta in tal senso».
«Se io dico che vorrei quel giocatore e non si può arrivare a firmarlo per la ragioni che ho detto, c'è chi ha la responsabilità di cercare un profilo simile e lo fa con grande competenza. E da parte mia deve esserci consapevolezza di quanto possiamo fare e come possiamo arrivarci sul mercato. Altrimenti sarebbe facilissimo per me dire "voglio Lebron James"... Con Marko e Daniele c'è una grande responsabilità condivisa come è giusto che sia in un club importante come il nostro».
Venendo al tuo Bayern, indipendentemente dal punteggio finale avete quasi sempre lottato sino alla sirena, escluse forse le due sole gare contro Barça e Real. Spesso sono mancati alcuni dettagli chiave per portare a casa 3-4 W in più. Questione di esperienza di alcuni giocatori o di chimica che arriverà col tempo?
«Assolutamente sì. Abbiamo sempre lottato e solo a Barcellona non siamo stai competitivi. A Madrid siamo rimasti la distanza possibile, ma poi al momento giusto loro hanno piazzato le giocate che l'hanno chiusa. E questa capacità è quella che ci è mancata diverse volte, come dici tu».
Spiegami meglio...
«Prendi ad esempio la gara di Bologna. Siamo stati in controllo per più di 30' e secondo me l'abbiamo persa quando siamo stati a +9 ma avremmo dovuto essere a +15 o +18 per come stavano andando le cose. Era chiarissimo che se li avessimo tenuti a distanza recuperabile la loro esperienza e la loro condizione attuale ci avrebbe messo in difficoltà riaprendo la gara. E così è stato. Toko, Belinelli, Hackett, Dunston: esperienza e valori incredibili che pochissimi hanno. Se arrivi a giocartela su un paio di possessi contro questa gente è facile perdere. Oggi contro di loro devi fare tutto perfettamente, altrimenti sei fregato».
«Ci serve ancora un po' di tempo, è questione di esperienza, di meccanismi e di conoscenza reciproca».
Restando sulla tua squadra, ho dato un'occhiata a tante "stats" e ce ne sono tre che mi hanno impressionato di più. Siete primi a rimbalzo, raccogliendo il 53,6% dei palloni disponibili (34,3 offensivi e 73,9 difensivi) a 38,1 di media per gara, siete ultimi per tiri liberi realizzati mediamente (10,1) ed infine, so che non ti farà troppo piacere, siete quarti per falli commessi (21,2) e quartultimi per falli subiti (18,6). Riguardano aspetti su cui state lavorando in particolare?
«E' fondamentale la questione rimbalzi. Ci serve averne il controllo per dettare i ritmi di gara. Noi non siamo una squadra con caratteristiche fisse, noi vogliamo correre a volte, vogliamo attaccare a metà campo, insomma controllare il ritmo il più possibile. Non abbiamo giocatori da 15 rimbalzi, è più facile che, soprattutto grazie agli esterni, ci siano 5-6 uomini con 5-6 rimbalzi».
«Per quanto riguarda i falli è ovvio che mi piacerebbe che questa statistica fosse ribaltata, dobbiamo essere più bravi ad andare a procurarceli ed a commetterne meno di quelli un po' ingenui».
Passando al tema allenatori, spesso si tende a differenziare il modo di allenare definendo alcuni "gestori" mentre altri sono ritenuti veri e propri "allenatori". A me pare un cosa un po' troppo semplicistica però credo che nessuno possa spiegare il tutto meglio di te, con due esperienze così differenti tra Real e Bayern...
«E' un lavoro che necessita di entrambi i passaggi. Devi saper allenare e devi saper gestire. Non puoi essere solo l'una o l'altra cosa. Mi piace pensare che siano due cose che vanno di pari passo e che devono sempre procedere allineate, con un bilanciamento che proprio il Coach deve saper equilibrare».
Mi verrebbe da dire che quindi si tratta di etichette abbastanza ingenue, per non dire di peggio. Ad esempio quando si sente dire che Chus (Mateo) a Madrid non deve allenare ma deve solo gestire perchè tanto sono fortissimi comunque, credo si stai dicendo una discreta stupidaggine...
«Assolutamente. E' evidente che la squadra sia fortissima , ma va allenata e va gestita. E' altrettanto chiaro che determinati campioni richiedano una gestione differente rispetto ad altri profili ma questo fa parte del lavoro che un allenatore sa bene di dover fare».
Parli di grandi giocatori, ne hai allenati a decine, ed allora ti chiedo quanto sia importante, nel tuo lavoro, costruire una fiducia che sia reciproca ma che, soprattutto, ti apra ad ascoltare ciò che quei grandi giocatori ti dicono.
«A volte la pallacanestro è semplicissima ed i grandi giocatori lo sanno anche meglio degli allenatori. Mi è capitato spesso ma ricordo in particolare un grande come il Chacho spiegare a tutti, in un determinato contesto, come eseguire un gioco semplice fosse la chiamata migliore anche perchè, come giustamente sosteneva, era circondato da altri grandissimi che avrebbero potuto beneficiare della semplicità e dell'immediatezza dei vantaggi da lui creati con un semplice tipo di pick and roll».
«Quello è il momento in cui tu devi dare la fiducia e devi capire che loro sono profili in grado di scegliere al meglio. E' molto più importante di qualsiasi disquisizione tecnica col tuo staff. Se un mio giocatore suggerisce qualcosa in un determinato momento e la fa con cognizione di causa dovuta ad esperienza e valori, per me si fa come dice lui. Dai quella fiducia ed avrai la loro nel momento più importante».
«Quello che dici, come lo dici, è fondamentale per costruire un ambiente di squadra che sia sano e che dia il meglio. Se sbagli nella comunicazione coi tuoi giocatori diventa tutto molto complicato, soprattutto nel mondo di oggi».
«Ti aggiungo una cosa, che è la più importante: un allenatore non deve mai smettere di imparare. Nel momento in cui pensa di imporre alla sua squadra un'idea fissa di gioco che non contempli le caratteristiche dei giocatori credo sia fuori strada».
Mi verrebbe quindi da dirti, Pablo, che mai e poi mai un allenatore deve pensarsi fondamentale e superiore alla squadra stessa imponendo senza considerare il materiale umano di cui dispone...
«E' esattamente così. Rispettare i ruoli dei giocatori mettendoli nelle condizioni di fare il meglio, costruire un sistema di gioco che esalti le caratteristiche dei singoli. Se fai questo allora sì che diventi importante, se non fondamentale. Se semplicemente imponi, non funziona».
Appunto, volevo proprio chiederti come gestisci il grande cambiamento nei rapporti e nei comportamenti di tutti i giocatori.
«E' necessario adeguarsi e farlo mantenendo principi saldi che non abbiano però il paraocchi. Ti faccio un esempio semplicissimo che riguarda il riscaldamento fatto con le cuffie. Tanti anni fa vedendo un giocatore che tirava con le cuffie chiesi perchè non avrebbe giocato, non era normale vederlo così, oggi non ne vedo uno senza... Oggi si parla molto meno anche durante i viaggi, tutti con lo sguardo al cellulare. La comunicazione è cambiata, i rapporti sono differenti e bisogna saper cogliere il momento di massimo interesse. Ovviamente mi fa poi piacere se vedo i giocatori della mia squadra che in un determinato momento stanno seguendo le gare di Eurolega».
«Le regole, poi... Ovvio che ne abbiamo per gestire il gruppo, ma bisogna anche capire il momento. Sai che stasera, sebbene si giochi domani contro Milano, io lascio tutti liberi di andare a cena dove vogliono e con chi vogliono? Siamo in giro per 200 e più giorni l'anno, credo sia giusto dare libertà e consapevolezza. Ci siamo svegliati stamattina a Bologna, ci siamo allenati con un po' di tiro, un po' di recupero, qualcosa di tattico e siamo partiti. Un po' di libertà per cena non fa male, anzi».
I rapporti con la stampa, sono cambiati anche quelli?
«Guarda, io con la stampa sono apertissimo. Chiedetemi tutto quello che ritenete giusto fare sul gioco, su un partita, su una situazione, è mio dovere rispondere a tutti, per tutto quanto mi compete e posso controllare».
Qui scatta la grande risata perchè torna alla mente la conferenza stampa del giorno dopo la semifinale di Vitoria 2019 in cui chiesi a Pablo, testualmente, "a 24 ore dalla sconfitta col Cska, hai un'idea più chiara dei motivi per cui è arrivato quel risultato?" La risposta fu notevole: "Mi è piaciuta il nostro attacco, mi è piaciuta la nostra difesa, avremmo potuto fare meglio alcune cose in alcuni dettagli ma globalmente mi è piaciuto tutto ciò che abbiamo potuto controllare ed è dipeso da noi". Messaggino di classe alla terna...
Però, siccome non siamo qua a pettinare le bambole, allora la domanda te la faccio... Tanta panchina ieri sera per Carsen Edwards nel secondo tempo, dopo i primi 20' da urlo, e soprattutto nelle fasi importanti: mi spieghi la scelta?
«Sai, noi possiamo anche sbagliare le scelte, ovvio che succeda, ma comunque dobbiamo scegliere ed in certi frangenti ritieni che determinati accoppiamenti possano essere migliori di altri guardando la tua squadra e quella rivale sui 28 metri del campo».
Nella hall passa Danko Brankovic, un centro che è abbastanza poco conosciuto in generale. Che giocatore può diventare?
«Sa già giocare bene, deve aggiungere un po' di atletismo sicuramente ma è grossissimo e credo possa raggiungere un buon livello». Confermo! Di fianco a lui c'è Devin Booker e proprio "Book" (206cm) sembra così piccolino..
A proposito di giocatori, se dovessimo parlare di grandissimi, a parte quelli che hai allenato?
«Spanoulis, uno che allenava già da giocatore, Mike James, perché mi piacerebbe dirgli "quello non è un buon tiro" con lui che me lo conferma ma lo mette, poi Micic, uno che ho visto dominare partite importanti come pochi altri».
Ed un giovane Coach che ti piace particolarmente e sul quale scommetteresti per un futuro radioso?
«Alimpjievic (Besiktas) sta facendo bene, tra chi non è più giovanissimo Ibon Navarro sta allenando alla grande, ma in generale credo che per la nostra professione sia soprattutto questione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Lo vediamo con tanti esempi attuali. Alcuni Coach si trovano nel contesto perfetto e fanno benissimo, altri, comunque grandissimi allenatori, hanno avuto difficoltà ed è parso che stessero facendo male. Ma non è così semplice la spiegazione, assolutamente».
La chiacchierata prosegue, decine di aneddoti, il derby di Belgrado incombe, ma soprattutto è tempo di quella cena "libera" per Pablo e per i suoi giocatori.
"Un allenatore non deve mai smettere di imparare" ed allora "Gracias Leyenda", quel concetto vale soprattutto per chi, anche se allenatore non è, ha avuto il privilegio di ascoltarti per più di un'ora.