Igor Kokoskov: Allenare è una storia infinita, non c’è mai una conversazione finale

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Igor Kokoskov, 49 anni, serbo, è certamente uno dei Coach più interessanti dell’intera Eurolega. Rookie? Certo, ma con un’esperienza che lo rende profilo decisamente unico.

Una vita cestistica passata negli Stati Uniti tra Missouri (NCAA), Clippers, Pistons, Suns, Cavs, Magic, Jazz e Kings, ultima tappa da assistente prima di tornare in Europa al Fenerbahçe. Primo Coach europeo su un pino NBA come capo allenatore, così come primo del vecchio continente a sedere su una panchina NCCA da assistente, ci ha regalato un’indimenticabile versione della nazionale slovena, campione ad Eurobasket 2017 con Luka Doncic e Goran Dragic.

Igor Kokoskov e Luka Doncic

Cittadino americano dal 2010, ha ricevuto l’Ordine d’Onore georgiano nel 2011 dal presidente Saakashvili, dopo aver guidato la nazionale del paese dal 2008 al 2015.

E’ stato assistente della selezione Serbia e Montenegro nel 2004/5 sotto Zeljko Obradovic, con cui ha partecipato alle Olimpiadi del 2004 ed all’Eurobasket 2005.

La sua promettente carriera di giocatore fu interrotta nel 1990 a causa di un grave incidente automobilistico. La grande padronanza della lingua inglese, unita ad un’etica lavorativa di alto livello, lo ha portato a bruciare le tappe. Già da giovanissimo, 24enne, è stato il più giovane allenatore della storia della Yugoslavia. Subito dopo la laurea all’università di Belgrado è stato parte dello staff delle nazionali plave, sia maggiori che giovanili.

Lo abbiamo incontrato dopo lo “shootaround” del mattino in vista della gara contro l’Olimpia Milano, appuntamento importantissimo per la corsa Playoff poi vinto dalla sua squadra, così come la seguente trasferta di Lione.

Coach, dopo 20 anni di America, come è stato l’adattamento al basket europeo a livello di club? Complicato?

«12 anni di esperienza con le squadre nazionali, 14 se contiamo anche il lavoro con Zeljko, ma le competizioni FIBA sono diverse, si tratta di due mesi. E’ una sfida, è tutto nuovo, un Coach deve essere flessibile, ci vuole tempo per adattarsi alle persone. Non direi che è stato difficile, la pallacanestro è la pallacanestro, bisogna solo lavorare per trovare il giusto feeling col gruppo».

Il Fenerbahçe arriva dall’epoca gloriosa a firma Zeljko Obradovic e Maurizio Gherardini: quanto sono stati importanti questi due personaggi nella tua scelta?

«Zeljko è la prima opzione di ogni club, nessuno è come lui. Maurizio lo conosco da tanto tempo, lui è molto rispettato in tutto il mondo della pallacanestro. Appena ha saputo che Zele non sarebbe tornato mi ha chiamato subito, ha parlato col mio agente ed alla fine io ho accettato senza porre alcuna condizione. E’ stata la voglia di sfida, la voglia di lavorare secondo il mio programma».

«Allenare è una storia infinita, non c’è mai la conversazione finale»

Hai detto che Zeljko per te è un mentore, come Coach e nella vita di tutti i giorni. Tecnicamente c’è un insegnamento particolare che hai preso dal più grande?

«Lui è unico, non è replicabile, è impensabile provare ad essere come lui. Abbiamo passato tanto tempo insieme. Ho sempre avuto il suo supporto. Mi è capitato di stare da lui per una settimana, proprio qui al Fener, ed abbiamo passato il classico 24/7 di basket. Non c’è una cosa in particolare, sai, allenare è una storia infinita, non c’è mai la conversazione finale: tutto si evolve e con lui abbiamo sempre avuto questo approccio».

Il tuo Fener ha cominciato bene, poi sono arrivate quelle due sconfitte con Cska e Bayern molto singolari: che peso hanno avuto a livello di fiducia nelle difficoltà che sono seguite?

«Non ne farei tano una questione di fiducia quanto di consapevolezza di aver perso giocando bene. Il primo tempo col Bayern è stato forse il migliore della stagione. Sono state molto importanti per il momento e per come sono arrivate. Vincere aiuta sempre…».

Il tuo Playbook ha rappresentato qualcosa di nuovo ed innovativo nel panorama europeo. Tanti giochi già visti ma con alcune soluzioni ben diverse dalle solite abitudini di un po’ troppi Coach, che spesso paiono giocare tutti allo stesso modo. Se noi guardiamo una partita con certe cose, oggi sappiamo che quella è la squadra di Kokoskov. Quanto è stato difficile farle apprendere ai giocatori?

«Il basket è un gioco di reazioni. Io sono il primo critico di me stesso, ma voglio allenare secondo i miei principi. “Teach what you know and know what you teach”, è fondamentale. Tutti rubiamo qualcosa agli altri, ma dobbiamo sempre aggiungere qualcosa di nuovo. E se conosci quel che vuoi trasmettere allora vuol dire che sai semplificare le cose ed è più semplice per i giocatori comprenderle».

La serie di 10 W ci ha mostrato un ritmo eccellente offensivo ed una conseguente crescita difensiva. Di solito si dice che una fase nutre l’altra…

«Senza difesa non si va nessun parte, questo è chiaro, tutto è in relazione, ma la cosa più importante è avere i giocatori in salute. Spesso non si riescono a fare certe cose e non si sa che dietro c’erano ruoli chiave che non stavano bene e ne deriva un problema tecnico».

Alla fine mi pare che la tua ricerca sia nella direzione di muovere il più possibile uomini e palla contemporaneamente per far lavorare continuamente la difesa: mi sbaglio?

«Lavorare con Larry Brown, che ne era uno dei massimi fautori, mi ha portato alla ricerca del movimento di palla e uomini. Per quel discorso sul Playbook poi ci sono delle differenze tra la NBA e l’Eurolega abbastanza significative».

E’ qualcosa che pensi possa essere legato a ciò che pensano in tanti, ovvero che l’Eurolega sia una lega di allenatori e la NBA una di superstar?

«Anche il college basketball è un torneo di allenatori: tutto è legato a loro, la storia, la comunicazione. E’ una questione di pari opportunità. In NBA ci sono Playbook molto più ampi. In Europa ce ne sono meno ma con una molteplicità di soluzioni. Di là sai dove ti deve portare quel gioco, ovvero dalla star che vuoi abbia in mano il pallone in certi momenti, qui è diverso. Ma dovrebbe cambiare».

In che senso?

«In Eurolega ci sono grandissimi giocatori, anche questa potrebbe tranquillamente diventare una lega di giocatori. La gente va a palazzo non per veder l’allenatore, ma per veder chi segna, chi è protagonista. E’ come Hollywood, puoi dimenticare il itolo di un film ma non dimentichi che il protagonista era Tom Cruise od un altro. Questo la NBA lo ha capito benissimo ed il primo a farlo è stato David Stern».

«Una buona transizione difensiva parte dall’attacco ed un buon attacco si prende cura della palla»

Le palle perse sono spesso state un problema, penso alla statistica che dice che il 18,3% dei vostri possessi termina con una persa. Di contro avete altri numeri notevoli, come il “rating” sia offensivo che difensivo. A volte sembra che non abbiate mezze misure: come te lo spieghi?

«Torno al concetto espresso prima sulla difesa. Una buona transizione difensiva parte dall’attacco ed un buon attacco si prende cura del pallone. Le palle perse ammazzano la difesa, che deve farsi in quattro per pareggiarne l’effetto negativo. I dati che mi dici sono corretti e ci lavoriamo, cercando di capire la derivazione per trovare le soluzioni migliori».

E proprio per quelle mezze misure che mancano, avete perso diverse gare con scarti molto larghi: 14. 42, 18, 20, 26, 37 e 32 punti. Che idea ti sei fatto su questa situazione? In sole 4 gare, tra quelle perse, siete stati sotto i 10 punti: 1 col Cska, 4 col Bayern, 4 con Valencia ed 8 con Milano. Qualcuno dice che perdere di 1 o di 30 è uguale, ma non mi pare…

«Non è così, in effetti. La maggior parte delle volte in cui siamo andati sotto così tanto è stato a causa di un pessimo attacco e siamo sempre lì, a quella transizione difensiva che nasce dal limitare i palloni gettati al vento».

Quanto è stato difficile adattare il tuo sistema di lavoro in condizioni molto particolari, tra rischi di contagi COVID ed ovvie difficoltà gestionali anche del singolo allenamento, dei viaggi etc…?

«E’ stato un adattamento complicato a delle condizioni anomale. Tutto è anomalo, oggi saremmo qui senza mascherina a berci tranquillamente un cappuccino, invece ci sono regole anche per quello. Non dimentichiamo che si gioca senza tifosi ed anche quello pesa molto. Non possiamo fare le cose più normali, l’auspicio è che quando tutto ciò sarà finito, avremo la capacità di apprezzare molto di più anche ciò che fino a ieri davamo per scontato».

Allenare non dev’essere semplice, in fondo i giocatori sono giovani uomini che hanno dovuto affrontare situazioni inedite e non piacevoli, penso ad esempio alla lontananza dalle famiglie, soprattutto di quelli che vengono da oltre oceano…

«La cosa più importante che hanno fatto i giocatori, in primis in NBA, è realizzare una condizione di privilegio che garantiva comunque un lavoro, mentre tanta gente lo ha perso. E’ stato fondamentale per svolgere la propria attività anche in condizioni molto particolari».

NDR Un grande ringraziamento a Ilker Ucer, responsabile della comunicazione del Fener, professionista esemplare sempre splendidamente disponibile nei confronti della stampa.

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alberto marzagalia

Due certezze nella vita. La pallacanestro e gli allenatori di pallacanestro. Quelli di Eurolega su tutti.
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