Il basket minore: di soprannomi, di non difese e di abbuffate. Perché non si vive di sola Eurolega

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Sono buoni tutti a giocare una partita di Eurolega, con i migliori d’Europa in campo e 10.000 ululanti sugli spalti. Ma solo chi ha passione può godere nel giocare in una palestra angusta, con un arbitro solo e che neanche ci vede bene, le docce fredde, e non ti viene a vedere neppure la fidanzata.

Eh sì, perché l’Eurolega ha un aspetto poco considerato: buona parte del pubblico ha giocato, gioca, o ha figli/figlie/fidanzati/fidanzate/mariti/mogli che giocano o hanno giocato nei campionati minori, le cosiddette “minors”, dal minibasket alla serie C e poi giù fino al CSI Silver.

Chi scrive lo ha fatto per decenni. E approfitta di questa pausa per tornarci, idealmente, consapevole che quasi ogni parola può essere estesa a qualunque sport di squadra, a qualsiasi livello “minore”.

Le minors, dunque. E con lo sfizio dei soliti 5 punti di Eurodevotion, che non si dica che non valgono quanto l’Eurolega!

Nicknames

Non importa il livello o il contesto, dove ci sono un gioco e uno spogliatoio scattano i soprannomi.

I più immediati nascono per distinguere gli omonimi, e vanno a “peso”. Che se giochi play e quoti 1.78 per 65 kg, il “Marchino” lo indossi anche con stile. Ma se sei un’ala “forte” (nel senso di taglia) di 90 chili, e ti ritrovi in squadra un pivottone d’altri tempi (in tutti i sensi) i cui genitori hanno avuto la stessa fantasia di battesimo dei tuoi, sei dannato a restare “Andreino” per sempre. Per lo più, i nicknames sono necessitati dall’immediatezza, ché non puoi mica chiamare palla recitando una litania, per cui nomi o cognomi vengono contratti alla sillaba iniziale, al massimo in versione anglofona

Poi ci sono i gemelli, non così insoliti da trovare sul parquet (ah, Dino e Franco Boselli!). Nelle minors, dopo il terzo contropiede di fila (generosa descrizione di quel caotico buco nero nel quale in campo succede di tutto per vari minuti) l’assenza di ossigeno al cervello impedisce di distinguere perfino i compagni pelati da quelli corvini; ed ecco allora che i gemelli vengono necessariamente rinominati con forma indistinta, possibilmente breve. Tipo entrambi “C”, dall’iniziale del cognome.

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Ma quello che rende una squadra davvero tale sono “gli altri” soprannomi, quelli che sgorgano improvvisi dalla fatalità. Così, se davanti alla doccia viene proferito un “ho prestato la borsa alla moglie, e mi ha lasciato solo il suo bagnoschiuma!” (estraendo una confezione rosa intenso),  Gabriele immediatamente e definitivamente è trasformato in Gabriella.

Infine, gli episodi da leggenda. Siccome stranamente nelle minors non c’è il draft per il reclutamento, capita che, con un “ho saputo che vi allenate qui”, si presenti in palestra lo sfortunato possessore di un fisico troppo gracile perfino per le bocce da spiaggia ma con discreta pancetta, carnagione di un pallore da far sembrare abbronzato Aaron White, età indefinita certamente “almeno …anta” (e la cifra la si può mettere liberamente, senza timore di esagerare), mobilità laterale e verticale che al confronto un nano da giardino è Kawhi Leonard. Ecco, lì scatta il genio: “signori, abbiamo L’Ammiraglio!”. Esatto, da quella massa di muscoli scolpiti nell’ebano di David Robinson, “The Admiral”…

 

Le strutture

Campi da tennis coperti da tensostruttura, gelidi d’inverno e torridi da aprile in poi, con due canestri aggiunti per far quadrare i conti del circolo, e luci fioche, sì, ma collocate esattamente dietro i canestri in modo da dover tirare alla cieca.

Palestre seminterrate, con le pareti a 50 cm dalle righe di fondo, che se arrivi lungo per recuperare una palla vagante finisci come Will Coyote, e le tacche sui muri testimoniano che in parecchi ci hanno provato lo stesso.

Hangar scolastico omnicomprensivo partorito da un architetto con seri problemi di allucinogeni, ospitante due campi multifunzionali affiancati, ognuno con righe di 7 campi diversi per 7 diversi sport, ciascuno in colore differente a comporre un gigantesco Kandinsky, e ti ritrovi a fare il terzo tempo dall’area di pallamano che poi per arrivare al ferro ti serve un galleggiamento in aria che neppure Micheal Jordan.

Per tacere di spogliatoi da carcere turco, con docce rigorosamente ghiacciate pure quando nel giugno milanese l’acqua sgorga dalle fontanelle a 32°.

 

Eppure, nell’immaginario delle minors, diventano “il Dome”, “l’Arena”, “il Forum”, “il Madison”, conditi con il nome della squadra o del quartiere.

Per qualche imperscrutabile motivo, questi mitici impianti sono abitualmente corredati di custodi molto, ma molto pittoreschi. Il nostro, per dire, vigilava sulla palestra della scuola sparendo a fine maggio per rientrare dalla sua amata Calabria solo a fine settembre; riponendo in noi una fiducia sconsiderata, prese l’abitudine di lasciarci le chiavi al momento della partenza, il che ci ha consentito di organizzare amene grigliate non appena la fine dell’attività scolastica diradava le presenze in zona. Faceva Bubba di cognome, e dovendo iscrivere la squadra al primo torneo ufficiale si decise su due piedi che saremmo stati i “Bubbers” (vedi sopra, nicknames): solo molto dopo scoprimmo che nello slang americano -tra vari significati non tutti lusinghieri- può significare anche “ubriaconi”; che poi, per qualcuno della squadra, ci stava pure.

Una volta iscritti al torneo e con la palestra a totale disposizione, si pose il problema delle maglie. Detto, fatto: il napoletano del gruppo, in una breve vacanza a Rimini, ci procurò tramite un ambulante cinese la fornitura di un set di orrende maglie gialle a sottilissime righine azzurre, con marchio “Addias” (no, non è un refuso). Le maglie restarono fortunatamente una stagione sola, ma il responsabile del misfatto è tuttora soprannominato ‘O Sponzor.

L’emulazione

NBA, Eurolega, quando va male le stelle del campionato, l’allenamento è una parata di canotte più o meno ufficiali, il cui indossatore è spesso inversamente proporzionale (per stazza, ruolo e ahinoi talento) al portatore originale.

E se poi un qualche gesto tecnico -dal “gancione” meritevole di brevetto alla dinamica di tiro non ortodossa- ricorda anche lontanamente quello di una star planetaria del periodo, scatta il solito soprannome destinato a durare più della carriera del titolare (vero, “Ice”?)

Immancabilmente, in partita si riproducono non solo i rituali appresi da spettatori -è capitato anche di sentire, prima della palla a due, l’inno dell’Eurolega pompato a tutto volume nella cassa portata da casa. Giuro-, ma anche gli highlights dell’ultimo mese (o più). Inevitabile l’esito: palla direttamente nello spogliatoio, ché in tribuna sarebbe stato ancora poco (e comunque, le nostre palestre, la tribuna non ce l’hanno), e ira funesta del coach che Obradovic scansati.

 

Le strategie

Tra gli argomenti di emulazione, la tattica merita un capitolo a parte: nelle minors si parte sempre, ma proprio sempre, ipotizzando trappole difensive capaci di imbrigliare pure LeBron, casomai gli venisse in mente di sfidarci; e si finisce inesorabilmente in una zonaccia bulgara 2-3, tentando così di celare gli effetti dell’approccio da “gatto di marmo” di (almeno) un compagno (e qui, ciascun lettore ha già aggiunto uno o più nomi).

In realtà, più che sugli schemi, la tattica difensiva si appoggia pesantemente sulla conoscenza dei “dettagli” della palestra, ignoti ai malcapitati ospiti. Il pressing in prossimità di quell’avvallamento dove la palla non rimbalza, orientare la difesa in modo che gli avversari tirino controluce, sfruttare la non perfetta simmetria dei canestri per cui quello storto è dove gli ospiti attaccano nel secondo tempo (perché nel riscaldamento prima dell’inizio della partita potrebbero abituarsi all’anomalia, e così invece…); e se va male, a punire gli avversari ci pensano sempre le docce fredde.

In attacco, con tutte le migliori intenzioni del mondo, da un certo punto in poi (della partita, della stagione, della carriera) è anarchia pura , con il lungo che si ostina a portar palla in contropiede perché “alle giovanili giocavo play”; trascurando che, ormai, “giovanile” è il commento che rivolgono al nostro aspetto gli avversari che giovani lo sono davvero.

Ovviamente, a qualsiasi livello, all’anarchia offensiva contribuisce la naturale tendenza di alcuni a non passarla mai, ma veramente mai: come quel compagno (con lontani, lontanissimi trascorsi in A2) che alla intimazione “fai girare la palla!” se la ruotò due volte intorno alla vita per poi tirare da tre, e quindi voltarsi verso la panchina con un gaudente “va bene così?”.

 

Il postpartita

Ammettiamolo: il vero senso delle minors é il post-partita. Che non è l’intervista in sala stampa, ma solenni abbuffate in trattorie che puntano molto più sulla quantità che sulla qualità.

Se la partita è “fuori casa”, si aggiunge il pathos della trasferta. Che non importa se è a 6 km dalla propria palestra, la si organizza comunque come se si dovesse raggiungere Vladivostok. “Ci troviamo alle 19.00 al distributore di piazza …, mi raccomando puntuali”, e tutta la chat -tranne il ritardatario del gruppo- sa che in realtà il ritrovo è mezz’ora dopo; e c’è sempre il viaggiatore della squadra che a inizio pomeriggio risponde “ora sono a Ravenna, quindi per stasera contatemi”. A chi scrive capitò pure che il distributore in quella data piazza non ci fosse, ma tal è la fiducia nell’organizzatore delle trasferte che tutti attesero il terzo giro di piazza prima di chiamare, in un forsennato carosello di cui gli abitanti della zona narrano tuttora.

Va detto che una parte della componente epica delle trasferte è oggi annullata da “maps”; ma i diversamente giovani hanno provato (tutti!) l’ebbrezza di suonare a un citofono nella nebbia, alla disperata ricerca di una palestra introvabile “ma tanto gli abitanti qui sapranno tutti dov’è”. Che se poi, per caso, le palestre erano più d’una, poteva anche succedere che il solito ritardatario (“tranquilli ragazzi, ci vediamo direttamente là”) arrivasse a partita iniziata, si cambiasse al volo e solo dopo essersi precipitato in campo si rendesse conto che la palestra era l’altra, e lui aveva sbagliato partita.

Se invece la partita è in casa, al “Forum” di cui sopra (indovinate il nostro? “Bubbadome”, ovvio), la squadra poi ripara nel suo “covo” abituale, dove il titolare prima ancora delle ordinazioni parte diretto col primo giro di “antipasti”; ovvero, una serie di portate che in qualsiasi altro consesso fungerebbe da cena e doggie bag per un numero doppio di commensali. E, abitudine anche questa, dopo il terzo giro di birra scattano inesorabili gli aneddoti, sempre quelli (“e quella volta che Andreone, dopo un fallo subito, spedì con un pugno il pallone prima a tranciare il filo del tabellone segnapunti, e poi di rimbalzo sulla panchina avversaria, dove tutti si gettarono a terra per evitarlo?”), e giù a ridere come se fosse un inedito.

Già, il vero senso delle minors è il postpartita.

 

Ciao Vittorione. Per essere sovrappeso nelle Minors, devi davvero essere molto, ma molto sopra il peso-forma di due compagni messi assieme.

Mano educatissima, per i passaggi un occhio insospettabile fino a quando il missile partiva, lingua sempre in movimento per un costante borbottio, guai a muoversi dalla mattonella sia in attacco che in difesa. Rimbalzi presi di posizione -ché di saltare non se ne parla-, apertura da manuale e “andate voi in contropiede, io poi arrivo”. Caso più unico che raro, Vittorione non aveva bisogno di un omonimo in squadra per essere tale.

Amara ironia della vita e di questi tempi, è arrivato per primo proprio al postpartita dove nessuno ha voglia di andare. E ovunque sia adesso, sicuro che sta borbottando per questo quinto fallo arrivato troppo presto.

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