A Basketball Simphony

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La pallacanestro, forse di più degli altri sport, è una bellissima metafora della vita. Il rimbalzo del pallone sul parquet è il ritmo del battito cardiaco, con la differenza che sei tu a decidere quando interromperlo e, solitamente, lo fai per fare una scelta. Il bello è che proprio mentre interrompi il palleggio, il cuore non ti ascolta più e batte all’impazzata, aspettando che il passaggio arrivi a destinazione o che il tiro entri dentro la retina, gioendo per il canestro e condividendo l’emozione con i tuoi compagni e con chi fa tifo per te. Ci sono momenti in cui non palleggi tu e dipendi da ciò che sceglie di fare il tuo avversario, ma anche un tuo compagno, e qui emerge parte del carattere: la timidezza, l’esitazione, l’aggressività, la freddezza, la generosità o la paura. Ognuno di questi momenti ci può scegliere o siamo noi che possiamo sceglierlo. Sempre. La metafora potrebbe andare avanti per molte altre righe, così tante che ne uscirebbe un romanzo in allegoria, perciò cercherò di traslare il tutto su un piano reale: la finale di Eurolega tra Real Madrid e Fenerbahçe.
Giocare una finale così importante dà ai giocatori in campo la possibilità di fare emergere il fanciullo che è in loro, eliminando la routine della professione e, a volte, anche l’esperienza acquisita negli anni o i trucchi del mestiere da poter mostrare. Denuda l’atleta e lascia solo una cosa: la voglia di vincere. Vincere a tutti i costi, vincere per sé, per i compagni, per la famiglia, gli amici o i tifosi. Ma vincere. Questa metafora include ogni sport, ma la riportiamo al basket, perché è sempre di basket che stiamo raccontando. Allora possiamo dire che è quel momento della vita in cui hai sudato per arrivare a quel punto e manca un solo step per tagliare il traguardo, ma l’impegno non è più la forza sulla quale puoi fare affidamento, non basta più. Hai bisogno di andare oltre un qualcosa che non si vede, non si misura, ma si percepisce. La senti nell’aria, spesso sei aiutato e spesso sei penalizzato, ma la percepisci solo tu e stringi i denti per proseguire su quella scia e vedere dove ti porta, sperando che il traguardo sia il simbolo della vittoria: il trofeo.
Senza dubbio è stata una delle finali più belle di sempre sotto il profilo tecnico; entrambe le squadre hanno eseguito molto bene il piano partita fornito dai propri allenatori e si può affermare senza tema di smentita che hanno entrambe giocato a carte scoperte, mettendo in campo tutto ciò che era a loro disposizione. Non voglio entrare nel particolare, descrivendo giocate o parlando dell’esecuzione degli schemi, ma cercherò di raccontare la partita seguendo il ritmo dettato dai giocatori, dagli allenatori e dalla bellissima cornice di pubblico presente alla Stark Arena. Penso sia giusto fare così per omaggiare una gara scritta, anzi composta, da musicisti del basket in grado di far susseguire le note con il giusto tono, posizionarle nello spartito al posto giusto e nel momento giusto, senza mai stonare, aspettando soltanto il suono della sirena finale a fermare il tutto; un po’ come la mezzanotte nelle favole o la campanella della ricreazione per gli studenti. Allora vi invito a sedervi, preferibilmente comodi, e ad ascoltare Real Madrid – Fenerbahçe. Ne vale la pena.
La prima sinfonia la compone Pablo Laso nella notte di venerdì quando, dopo aver conquistato l’accesso alla finalissima, va a festeggiare in un locale nel centro di Belgrado con la famiglia. Sono le due di notte, il locale sta per chiudere e il proprietario non sembra interessato ad avere un altro cliente, sebbene egli sia il coach della squadra che due giorni dopo si contenderà il titolo europeo. Laso accoglie il rifiuto con un sorriso diplomatico, quello che tante volte gli abbiamo visto sul volto, sia dopo vittorie che dopo sconfitte. Non è di certo la cosa peggiore che gli sia accaduta negli ultimi mesi e allora prosegue la camminata lungo il corso con la famiglia, orgoglioso di quanto fatto durante la sera. Ironicamente, ma neanche troppo, il mio pensiero volge subito a Obradovic, immaginato nella sua stanza a studiare ogni singola azione del Real Madrid. Penso a quanto sia bello e singolare il modo di festeggiare un traguardo appena raggiunto e cresce in me inevitabilmente la voglia di scoprire il vincitore della finale. Alle 12.00 del giorno successivo la conferenza stampa delle squadre finaliste: routine per Obradovic ed evento già ben noto a Pablo Laso. Le parole, il tono di voce, la postura del corpo sono elementi che dicono tanto sull’umore di chi è sotto i riflettori. I comportamenti assunti da Obradovic non sono più quelli carismatici e famelici di chi ha energie per vincere ancora una volta, tratti che hanno sempre contraddistinto il coach serbo. Tuttavia, la tranquillità con la quale il re affronta la stampa è inusuale, strana direi. Non c’è il fuoco nei suoi occhi. Al suo fianco un coach più timido parla chiaramente a tutti, a cuore aperto, rispetta l’avversario, ma ha consapevolezza di sé e dei suoi ragazzi. “Noi siamo il Real Madrid e per questo siamo sempre favoriti, anche quando abbiamo un avversario del calibro del Fenerbahçe”. Allora i due coach si congedano con una foto davanti alla coppa, come da prassi, e vanno a rifinire il vestito per il grande ballo, vivendo travolti dalle emozioni la notte prima della finale.
Vivere la finale da addetto ai lavori ti permette di vivere l’evento a trecentosessanta gradi, di cogliere ogni attimo, ogni sensazione e ogni spostamento. Allora è l’occasione giusta per arrivare alla Stark Arena con un largo anticipo, prendere la propria postazione e osservare la grandezza del vuoto: 18000 seggiolini blu, i banner pubblicitari e il silenzio più totale, saltuariamente interrotto dagli organizzatori e dai tecnici. Chiudo gli occhi e immagino come sarà quel vuoto qualche ora dopo, vedendo striscioni e magliette gialle, voci e rumori provenienti da tutte le direzioni mentre progressivamente cercano armonia, con il solo intento di entrare sul parquet di gioco e spingere i propri beniamini verso la vittoria, l’eterna gloria. Qualche ora dopo sono nella stessa postazione, con gli occhi ben spalancati e le orecchie pronte a carpire qualsiasi suono, ma il blu dei seggiolini ha lasciato progressivamente il posto al giallo degli indumenti turchi, passando per una porzione verde lituana e un acceso spicchio rosso russo. Nell’angolo sinistro posto di fronte alla tribuna stampa emerge timidamente del bianco, quello dei pochi tifosi spagnoli giunti a Belgrado per stare vicini alla propria squadra. Le voci non sono ancora dirette verso il campo o, più semplicemente, non sono come mi aspettavo. Allora volgo lo sguardo verso il parquet di gioco e osservo minuziosamente i volti dei protagonisti, cercando di ascoltare il loro umore rubando indizi dal modo di palleggiare o dal modo di rilasciare il pallone dopo un tiro. Colgo tensione, paura, energia, voglia di vincere, ma tutto viene progressivamente mascherato da un fanciullesco atteggiamento di divertimento: i giocatori in campo sono a contatto con il pallone, con il canestro e con la possibilità di giocare una finale; dimenticano i problemi fisici, cosa è andato dritto e storto durante la stagione, così restano solamente il basket e la sete di gloria. Lamonica alza la palla a due e perdo l’orientamento perché tutto ciò che qualche ora prima era immaginazione, si concretizza dal nulla, con un impeto unico tanto da farmi scorrere un brivido lungo tutto il corpo. Il Fenerbahçe non è solo e 15.000 tifosi turchi entrano con le loro voci in campo, portando con sé la passione per la loro squadra radicata nella loro cultura e nel nome di Mustafa Kemal Ataturk, il padre dei turchi. In questo momento si inserisce molto bene il basket come metafora della vita, precisamente in quel momento in cui devi affrontare una prova dura a punto tale da arrivare vicino alla definizione di impresa e non sei solo; la tua energia è alimentata da chi ti vuole bene, chi crede in te e prende parte al tuo momento. Infatti, l’inizio dei giocatori in maglia blu è perfetto: l’armonia di chi inizia a comporre sulle ali dell’ispirazione. Improvvisamente, quest’armonia viene meno, senza spiegazioni e senza domande. Il pentagramma cambia colore e le note le inizia a scegliere Luka Doncic, il giocatore più piccolo, quello con tutte le pressioni addosso e con tutti i riflettori puntati. Il suo gioco è musica, è la spiegazione platonica al bello ed è coinvolgente; porta i suoi compagni a seguire il suo ritmo, affronta l’avversione del tifo turco, lo incanta e il Real prende il controllo della gara. La metafora continua ad essere alimentata, la squadra di Laso vede la pioggia che lascia il posto al tempo bello, con le nuvole spazzate via da un gruppo di ragazzi che durante la stagione ha combattuto contro la sfortuna, la sofferenza e la speranza: sono quei momenti che ti fanno soffrire, ti fanno sentire solo e impotente. Tuttavia, devi rialzarti e continuare ad affrontare la vita e lo fai senza più paura, con più consapevolezza e voglia. Il Real continua a crescere e riesce a dare risalto anche ai pochi tifosi presenti sugli spalti, annichilendo gli avversari e lasciandoli senza punti di riferimento. Il bello continua ad avvolgere tutti i testimoni di quello spettacolo che il parquet sta regalando e, nel momento meno aspettato, prende il proscenio un giocatore definito “di sistema”, uno di quelli che eseguono alla perfezione il compito assegnatoli, fanno brillare i compagni, ma restano leggermente fuori dalla sagoma proiettata dall’occhio di bue. Si materializza il coraggio dettato dalla necessità: una penetrazione dà fiducia al tentativo di una tripla che porta a una schiacciata, in un climax ascendente. Al cielo. Melli ricarica i suoi tifosi e tiene la gara aperta. Il secondo tempo della finale è puro genio, senza correzioni, senza pensieri o montature. Se è vero che la Storia sceglie delle persone e fa fare loro imprese per il gusto di affermarsi, il personaggio scelto da questo ente metafisico è il diciannovenne Luka Doncic che, aiutato da un Causeur in giornata di grazia, continua a comporre la sua sinfonia. Sorride, la diffonde in tutto il palazzo e il suono della sirena finale suggella il volere della Storia. Il palazzo appare improvvisamente colorato tutto di bianco, Madrid esulta per la decima ascesa sul tetto d’Europa. Luka miglior giocatore e 15000 turchi inchinati a quanto compiuto da una squadra che ha fatto dell’unione e dell’umiltà la sua forza.

La gioia dei festeggiamenti diventa progressivamente un’eco lontana, mentre il colore della Stark Arena torna a essere il blu dei seggiolini. I giornalisti restano nella loro postazione a descrivere l’impresa appena vista, i tecnici smontano tutto. Torno nella postazione dalla quale avevo osservato il palazzo riempirsi: è nuovamente vuoto, le luci si spengono. Nel buio resta un odore di gloria, la consapevolezza di aver visto una partita leggendaria con un giocatore che sarà ricordato dal mondo.

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Antonio Mariani

Laureando in Lettere presso La Sapienza di Roma e appassionato di Sport Business, viaggio ossessivamente per studiare le culture sportive nel mondo. Amante della narrazione, la studio, la ammiro e la pratico in ogni sua forma.
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