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#EUROBASKET2017 – SEMIFINALI La Serbia di Djordjevic con attributi d’acciaio: è la grande scuola slava

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L’ho già scritto, almeno due volte, forse perfino di più, ma quel diavolo di un Sasha Djodjevic ha deciso di ricordarmelo giorno dopo giorno, durante tutto questo europeo:

«You know me, gold is the target».

Queste parole, pronunciate pochi giorni prima del 31 di agosto, suonavano un poco sfacciate ed assai propagandistiche: sembrava un tentativo di tenere alta l’asticella per i suoi, quasi fingendo di credere a qualcosa che la logica delle assenze di Jokic, Bjelica, Teodosic, Kalinic e Markovic diceva essere impossibile.

Eppure Sasha lo conosciamo tutti, qualcuno mi raccontò il privilegio di vederlo, a metà di una partita abbondantemente persa,  assicurare ai suoi compagni un ventello nel secondo tempo e la vittoria, con tanto di posta in palio. Non sto a dirvi come finì… Nella sua avventura milanese, alle prime armi come coach, subì la pressione di un ambiente che in seguito fece vittime anche più illustri, ma effettivamente, non era ancora l’allenatore di oggi. Leader sì, ma probabilmente troppo “Djordjevic” per farsi capire da chi non lo era. Il gioco non scorreva fluido, sia per interpreti limitati che per quei problemi di comunicazione, e la storia finì come sappiamo. Ma proprio da lì, da quelle difficoltà, nasce la forza odierna di Sasha: lavoro, lavoro, lavoro. Come nella sua impareggiabile carriera da giocatore, in cui vinse moltissimo ed affrontò anche sconfitte crudeli, ma portò sempre il rendimento della sua squadra al massimo, ovunque si trovasse. Questa è la differenza tra il mondo di Djordjevic e quello esterno, laddove nel suo mondo vi è la cultura del lavoro e del sacrificio che pervade la pallacanestro balcanica da sempre. Prendete un giocatore slavo a 15 anni, rivedetelo a 19 e poi ancora a 23: poi fate la stessa cosa con qualcun altro, magari un azzurro. Inutile proseguire, è tutto chiaro. Le chiavi della palestra per andare a tirare dalle 6 alle 8 prima di andare a scuola te le danno in molti paesi d’Italia, il problema è avere i “maroni” per svegliarsi alle 5… 

Sasha è l’MVP serbo e lo è per aver saputo impermeabilizzare il suo spogliatoio da ogni condizionamento esterno, da ogni polemica, vedi situazione Jokic e ridicole dichiarazioni del giocatore, e per aver perfino appoggiato defezioni pesanti, come nel caso di Teodosic («Milos ha sempre dato il 100% in nazionale, se ha bisogno di riposo è giusto che lo abbia»): il suo #siamoquesti è stato orgoglio aggiunto, voglia di dare tutto ben oltre i propri limiti, è la faccia di Milan Macvan, è la demoniaca purezza di Bogdan Bogdanovic, che mi ricorda un viso d’angelo, sì, ma quello sterminatore, capace di entrare sotto pelle agli avversari, per  rovesciare gli equilibri della borghesia del basket continentale. Essere capaci di allenare e far rendere al meglio sia squadre dal talento infinito, come quella di Rio o dei Mondiali, così come una dai limiti più evidenti come questa, sulla base di presupposti tecnici ben differenti, è laurea assoluta per un coach.

Bazarevich e Shved ci hanno provato, lo hanno fatto fino in fondo, quando su quel 73-75, la tripla del fenomeno di Belgorod avrebbe potuto dare un incredibile vantaggio ai russi dopo la rimonta. Non ce l’hanno fatta, ma nulla toglie al loro splendido percorso europeo, decisamente sopra le aspettative, dopo una fase di preparazione assai sotto tono tecnicamente.

Sarà quindi apoteosi del basket balcanico, la Slovenia in missione contro la Serbia dei miracoli: obiettivamente le due squadre, con la Lettonia, che hanno meritato di più. E la sensazione che quel quarto di finale tra Dragic e Porzingis valesse quasi la certezza di una medaglia era fortissima. Ora l’atto finale, in cui, presumibilmente, un punteggio sotto gli 80 punti potrebbe premiare i serbi, mentre sopra quel livello la squadra di Kokoskov pare favorita. L’incognita dell’infortunio a Jovic peserà moltissimo.

Come di consuetudine, cinque sensazioni dopo la gara di ieri.

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