Sasha Djordjevic ad AREA 52, l’intervento di un vero uomo di basket e non solo

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Sasha Djordjevic ad inizio settimana è stato ospite e protagonista di AREA 52, il programma in onda su Twitch ogni lunedì sera condotto da “Elle” Solaini, Marco Pagliariccio e dal sottoscritto.

Puntata di straordinari contenuti quella di lunedì 31 ottobre ad AREA 52 grazie alla presenza di un Sasha Djordjevic che ci ha regalato tantissimi contenuti assieme ad un’intensità di passione verso il gioco che raramente abbiamo riscontrato.

Aneddoti, racconti dal glorioso passato del basket slavo ed un equilibrio verso le vicende attuali, anche personali, che hanno creato grandissima empatia con tutti gli ascoltatori e con chi ha condotto il programma.

Si può dire? Direi che si deve dire… Ci sono personaggi coi quali quell’empatia nasce al naturale grazie a disponibilità degli stessi e proprio ad una passione verso la pallacanestro che sgorga sinceramente da ogni contenuto che viene proposto.

Sasha è stato tutto questo e da parte nostra non può che arrivare un grazie grade come una casa, il minimo da “malati” sempre alla ricerca di qualcosa di profondo che appunto ci ha regalato.

Abbiamo ripreso i passaggi principali di una puntata che vi invitiamo a seguire integralmente per goderne ogni singolo istante. La trovate su Twitch oppure su YouTube, dove vengono riproposti anche alcuni contenuti singoli. Qui di seguito l’intervento di Sasha.

Cosa fa Sasha oggi…

«Sto benissimo, mi godo la famiglia a Milano, guardo tanto basket ed ho cominciato a fare una ventina di minuti di qualcosa che chiamo yoga ma mica è yoga… Mi fa iniziare bene la giornata. Ho voluto fare qualcosa fisicamente perché sono diventato pigro dopo l’operazione all’anca».

Stuzzicato sulla sua “next defense” che fu decisiva contro Milano nelle finali 2021, usata anche dalla Lituania contro Doncic ad Eurobasket…

«Fa piacere quando si riconosce un lavoro o almeno delle idee. Tre mesi dopo la vittoria della BCL con la Virtus abbiamo rifatto la squadra pensando alla fisicità dei giocatori che sceglievamo. Alzando questo muro delle guardie, anche in nazionale, contro il pick and roll e mettendo un altro giocatore vicino a difendere, non solo il lungo, ciò che io chiamo “next”, mi ha sempre dato risultati».

«Fin dai primi giorni della stagione maledetta del Covid avevamo quell’obiettivo».

«In nazionale dissi che dovevamo battere la Spagna, alla Virtus dissi che dovevamo prepararci per Milano. All’inizio della finale, dopo aver superato Brindisi, confermai in riunione che tutto ciò che avevamo fatto come lavoro era stato fatto per quella serie contro Milano».

Il Punto di Toni Cappellari

L’anomalia di due mancate riconferme dopo i titoli con Virtus e Fenerbahçe: la prossima volta giocherai per perdere…?

«Chiamerò Marzullo e vediamo cosa mi dice…».

Dopo la battuta la parte seri ed interessante…

«Per me finché non è finita, fino all’ultimo tiro, io non accetto che qualcuno sia meglio di me. Se poi mi batte gli stringo la mano».

«Io ho scelto nella mia vita di propormi in un certo modo, di usare parole giuste, ad esempio di evitare di bestemmiare nei timeout, anche nella mia lingua che è difficile, ho scelto di fare così ma come dicono in America “don’t take my kindness for weekness”».

«Vado per la mia strada. A novembre non si vincono i campionati, è un processo, prepararsi per un sistema di lavoro generale, saper comunicare e trasmettere, come ha riconosciuto un fisioterapista del Fener che mi ha ringraziato per aver portato un sorriso ogni giorno».

«Nel caso del Fenerbahçe c’erano clausole che ho accettato io, nonostante avessi scelto solo un giocatore, Hazer, o meglio ne ho avallato l’arrivo. So cosa vuol dire per il Fenerbahçe entrare o meno nei Playoff ed allora ho scelto di proteggere il club e mettere la mia faccia davanti a tutto».

«Poi ci sono stati gli infortuni, la guerra, tutta una serie di cose che non vi dico nemmeno. Quando il club ha deciso non ha analizzato tutto in profondità, ma la decisone è stata legittima».

«In finale contro un Efes che aveva Larkin come sesto turco abbiamo fatto cose di cui sono veramente orgoglioso, come sanno i miei giocatori».

sala stampa

Le grandi coppie di oggi, vedi Larkin-Micic, ma trent’anni fa c’era gente come Djordjevic-Danilovic…

«Io leggo anche fuori dal nostro mondo, ad esempio leggo che Warren Buffett, uno che ha fatto qualche soldino, dice che quando compri una casa le tre cose più importanti sono “location, location, location”… Se mi chiedete quali sono le cose più importanti nel basket vi dico “guardie, guardie, guardie”. Non me ne vogliano i lunghi etc, ma storicamente sappiamo dove si decidono le grandissime partite. Chi ha record storici, anelli e così via. La pallacanestro parte e finisce nella testa di questi ruoli importantissimi».

«Con Danilovic, sin dalla Korac vinta contro Cantù nel 1989 per poi arrivare alla Coppa dei Campioni ad Istanbul, abbiamo iniziato il nostro percorso. Guadagnavo circa 500 €, roba che dopo quattro pizze e la benzina era finito tutto. Eravamo sempre in palestra con un grande Coach come Zeljko Obradovic, il suo mentore Aleksandar Nikolic ed abbiamo fatto qualcosa di cui saremo orgogliosi per sempre».

Il lavoro dei Coach e le basi del gioco…

«Da noi ci sono ancora i grandi maestri, ma sempre meno, guardando anche come giochiamo. Le estati in cui si lavora sulla tecnica e sui fondamentali sono basilari e ci devono essere ancora: la pallacanestro è A, B, C e D. Se arrivi alla E e dimentichi A, B e C fai un gran tonfo».

«Tutto è importante, angoli dei blocchi, se sei sui talloni o sulla punta dei piedi, come metti il pollice sotto il pallone, come muovi le spalle… Ce lo dimentichiamo, c’è sempre meno tempo e le associazioni giocatori non aiutano riducendo questi tempi di allenamento pensando che ci si infortunerà. Non è vero, l’ho detto a Nachbar che stanno sbagliando. Si va verso la diminuzione del lavoro, verso l’1vs 0 che piace ai giocatori perchè fa stancare di meno ed allora paghiamo la poca voglia di imparare e di studiare il gioco fino al massimo livello e poi manca un po’ di qualità nel gioco. Servono quei tempi per riempire il serbatoio in vista degli impegni».

Sulla Serbia che non sarebbe più terra di basket secondo il presidente della Stella Rossa, dopo il KO ad Eurobasket…

«Il nostro europeo è stato negativo e l’Italia ci ha battuto non una ma due volte quasi alla stessa maniera. Sarebbe servita molta più resilienza in questa guerra nervosa sul campo. Non ci aiuta la popolarità della pallacanestro a Belgrado, tutti i nostri MVP, come se esistessero solo loro e quindi ci si sente sempre favoriti. Serve bagno di umiltà, serve ricominciare dalla base e combattere la guerra con la fanteria, senza pensare agli aerei etc… Uso un paragone con la guerra che è bruttissimo… Usi la dentiera che ti porti da casa e metti il coltello tra i denti».

«C’è ancora tanta pallacanestro a Belgrado, ma ci mancano i risultati sia come nazionale che come club, sia in Eurolega che nelle altre coppe».

Su un grande insegnamento ricevuto…

«Dopo aver perso la finale di Coppa campioni con l’Olympiacos dovemmo giocare l’anno dopo la Korac al Barça. Il mio Presidente di allora, Salvador Alemany ci disse prima della stagione 98/99 che per il Barcellona non era prestigioso giocare la Korac ma era più prestigioso vincerla. E noi lo abbiamo fatto. Questi sono gli insegnamenti che i grandi dirigenti devono trasmettere a noi che andiamo sul campo. Anche nei club manca questo a volte».

Sul papà Bratislav allenatore…

«Con la Stella Rossa vinse nel 1972. Vi ricordate la rissa famosa con il Simmenthal di Art Kenney in quegli anni? Io ero sugli spalti, a 5 anni. Quel campionato fu l’ultimo successo dell Stella Rossa nel campionato della Jugogslavia che aveva un livello pazzesco».

«In quelli anni c’era un giornale che si chiamava Tempo che uscì con una foto mia con una maglia bianconera del Partizan. Avevo appunto cinque anni ed il titolo era “figlio contro papà”. La maglia me la fece mia nonna lavorando a maglia, in onore di mio nonno partigiano morto in guerra».

«Sono cresciuto veramente come tifoso del Partizan, sugli spalti a tifare Kicanovic, Dalipagic…».

«Il campionato jugoslavo era fatto da 12 squadre, quasi 12 nazionali. Olimpia Lubiana che era la nazionale slovena, Cibona, Zara e Spalato che erano quelle croate, Buducnost che era la nazionale montenegrina, Skopjie quella macedone, Bosna quella bosniaca, poi a Belgrado le serbe Stella Rossa e Partizan col Radnicki. Puoi immaginare la competitività anche perchè fino a 28 anninon potevi lasciare il paese e quindi la concentrazione di talento era tremenda, come in Unione Sovietica».

«La pallacanestro è stata creata con le competizioni FIBA. Con le rivalità tra le grandi nazionali che ne derivavano. Il film che ha guadagnato più soldi nella storia russa è il documentario che racconta l’impresa di Monaco 72. Noi siamo cresciuti con quel legame. Oggi chi lavora da grande manager deve capire che il successo delle nazionali è fondamentale, traino irrinunciabile».

Sulle partite di quel campionato il sabato pomeriggio su Capodistria commentate da Sergio Tavcar…

«Era importantissimo che si sapesse come il sabato alle 1700 c’era il basket. Se c’era un partitone sapevi che era a quell’ora e questo dava grande visibilità e certezze».

«Oggi è importante capire che dobbiamo indirizzarci ai giovani, a quelli che saranno i tifosi di domani. Non tanto verso gente come noi che possiamo parlare per ore di basket divertendoci, citando la storia e così via. Non tutti possono aver la passione ed il tempo per tutti i dettagli del gioco come noi, ma non dimentichiamo che qualcuno ce lo ha insegnato. Che mezzi abbiamo oggi per farlo a nostra volta, per avvicinare e far appassionare il nuovo pubblico? Credo che più di tutti spacchi una medaglia della nazionale, quella trascina come niente altro. Il giorno dopo quella medaglia ogni ragazzino vuole fare quello sport. Nel ’78 vinciamo l’oro alle Filippine, io da bambino dico a mio padre “voglio essere un giocatore della nazionale e vincere una medaglia”. E dieci anni dopo sono arrivate le prime medaglie con la squadra juniores».

Sul tema Pajola ed il suo sviluppo offensivo…

«L’unico che non sbaglia mai un tiro è quello che non ci prova. Qui c’è il campo, quindi tocca a te. Autolimitarsi non credo lo faccia o lo voglia fare. Deve giocare su entrambi i lati. “Sky is the limit” per tutti. Spesso passano secondi in campo, palla ad un giocatore che tira, tu da Coach dici “Noooo” poi lui segna e tu allora “Bravo”… “Pajo” sta maturando e la continuità deve essere il suo obiettivo. Si può fare di più, sempre. Arrivato alla Virtus c’era Cappelletti, un buon giocatore con due belle gambe ed io decidetti per “Pajo” perchè credevo fosse il futuro della Nazionale. Così feci anche con Mario Gigena a Milano, di fronte al giovane Danilo Gallinari. Gli dissi di scegliere e lui capì e rimase con ottimi risultati».

Real Madrid Virtus Pajola Cordinier Eurolega

E sul nuovo look proprio di Pajola…

«Un mio vecchio maestro, diceva che quando un giocatore cambiava scarpe, pettinatura etc… “si stava cercando”. Ecco, spero che Pajo non mi faccia una canzone rap o roba simile e rimanga solo un giocatore di basket. Lo saluto con affetto, lo conosco, so di cosa è capace…».

«Oggi questi look strani mi fanno ricordare i tempi del Bayern e Booker. Aveva una pettinatura strana ed io gli dissi che quando si sarebbe presentato coi capelli alla vecchia maniera sarebbe diventato “un giocatore della Madonna” ed avrebbe aggiunto uno zero al suo prossimo contratto. Dopo un mese è arrivato pettinato come si deve ed io gli ho detto “Grande Book! Oggi parti dalla panchina!” Lui “Nooo, Coach…”, “scherzo, vai in campo…”».

«Stessa cosa con Julian Gamble che io chiamavo ananas per i capelli che aveva. E’ venuto da me con un taglio normale ed io gli ho detto “Ok, ora puoi cominciare a segnare qualche tiro libero”. Ai ragazzi piace che li si segua, non puoi lasciarli soli con queste cose, è una questione di giochi mentali».

Che dire da parte nostra? Probabilmente solo banalità al confronto con un’esperienza del genere.

Una cosa però va sottolineata senza esitazione alcuna. Nel mondo del basket, ma dello sport in generale, ci sono tanti personaggi che si propongono in una determinata maniera che per usare un eufemismo possiamo definire “non entusiasmante”. Il ruolo pubblico che ricoprono dà loro tantissimi onori che superano ampiamente gli oneri: avere la capacità di creare una vera e propria empatia con gli interlocutori e quindi indirettamente con il pubblico è una delle caratteristiche migliori che possano avere. Il tutto si potrebbe ridurre ad un tema di personalità, ognuna diversa dalle altre, ma sarebbe troppo limitativo.

L’impressione che si ha chiacchierando con Sasha è quella di una sconfinata passione per il gioco e di una capacità notevolissima di raccontarlo e di farlo in modo che il gioco stesso possa ricavarne una crescita. Non è da tutti, è semplicemente da persone vere.

Quindi, che dire? Ecco, un semplicissimo, ma per nulla banale, “grazie Sasha”.

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alberto marzagalia

Due certezze nella vita. La pallacanestro e gli allenatori di pallacanestro. Quelli di Eurolega su tutti.
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