Jordi Bertomeu in esclusiva ad Eurodevotion: Orgoglioso dei miei 22 anni al timone di Eurolega

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Jordi Bertomeu, CEO di Eurolega dalla sua nascita fino al recente giugno, ci ha raccontato in esclusiva l’avventura di una lega unica.

22 anni alla guida di un sogno chiamato Eurolega, Jordi Bertomeu ci ha raccontato la grande avventura fin dalla creazione della massima espressione del basket continentale.

L’inizio, i primi anni da veri e propri pionieri, un mondo da convincere e le grandi soddisfazioni arrivate negli anni.

I protagonisti, un ruolo da ritagliarsi accanto ad una Champions League di calcio dominante, i cambiamenti nel secondo decennio del secolo e l’ultimo periodo vissuto con grandissimo orgoglio.

Mr Bertomeu, da dove cominciamo? Direi dall’inizio della grande avventura. Un’idea tua e di quali altri grandi personaggi?

«La Lega spagnola voleva fare un passo avanti, così come lo volevano quella francese e quella greca. In quel periodo l’Italia viveva un periodo di transizione e c’era stato il soprasso iberico dopo che gli italiani stessi erano stati leader del movimento europeo a lungo. Quella è stata la scintilla».

Convincere un mondo un po’ scettico non è stato facile: quale la chiave per portare i grandi club a credere nel progetto Eurolega?

«La trasparenza e la forma del progetto, ben più dei soldi che sono arrivati dopo. Sai che noi eravamo pronti con tutta l’organizzazione a giugno 2000, mentre l’accordo con Telefonica è stato raggiunto a metà settembre. Ho coinvolto persone come Andrea Bassani e Kostas Rigas, nonché altri, in modo che ognuno potesse gestire le proprie aree di competenza».

Il primo decennio è stato caratterizzato soprattutto da 4 grandissime squadre: la Virtus Bologna, il Maccabi, il Panathinaikos ed il Cska. Di tutte ricordiamo i campioni ma soprattutto i grandissimi allenatori come Messina, Gershon, Obradovic ed ancora Messina a Mosca. Possiamo dire che queste eccezionali menti cestistiche sono riuscite a  superare addirittura la popolarità di quei grandi giocatori che hanno allenato?

«Senza dubbio hanno dato un contributo incredibile. Alla tua lista ne aggiungerei altri, tipo Aito ad esempio, un vero genio della pallacanestro, piuttosto che Ivkovic. La realtà è che in Europa si è sempre giocata una pallacanestro di allenatori, personaggi che hanno influenzato molto anche al di fuori del campo senza che ciò andasse a discapito dei giocatori. Nel secondo decennio ne abbiamo avuti altri altrettanto grandi ma forse la situazione si è un po’ bilanciata».

«Il passaggio alle licenze era già previsto fin dalla creazione della lega. Abbiamo sempre cercato il maggior consenso possibile parlando con tutti in Europa».

Negli anni seguenti, chiamiamolo il secondo decennio, inizia  a maturare l’idea del cambiamento per arrivare all’Eurolega di oggi. Certamente un’altra idea tua ma credo vi sia stata una grande spinta da parte dei club per arrivare al torneo con la formula e l’organizzazione attuale. Posso chiederti se qualcuno ha spinto più degli altri?

«Non particolarmente. La parola che usi, maturare, è quella giusta, come accaduto per ogni nostro singolo passo. In realtà il passaggio alle licenze era già previsto dalla regolamentazione del 2000, quando chiedevamo un contratto triennale alle squadre. Il passo seguente è stato naturale. Noi non abbiamo mai cambiato l’approccio al nostro lavoro, cercando di parlare con tutti in giro per l’Europa al fine di raggiungere il consenso più ampio per andare avanti tutti nella stessa direzione

Una delle situazioni chiave, a mio parere, è stato in precedenza però, quando è arrivato il momento di gestire da soli i nostri diritti, nel 2005. Voleva dire fare le cose in proprio e quindi scegliere se andare avanti o tornare in FIBA. Pensa che in 22 anni abbiamo dovuto ricorrere una sola volta ad una votazione, nonostante i “management” dei club siano cambiati parecchio nel tempo».

Però così mi incuriosisci, in quale caso è successo?

«Durante la pandemia in occasione dell’accordo siglato coi giocatori. Era un passaggio fondamentale ed ho chiesto io che si votasse. 10 favorevoli ed un astenuto». 

Arriviamo all’ultimo biennio e dopo quella famosa riunione “segreta” di Atene arriva l’idea per una parte dei club, di cambiare. Non voglio entrare nel merito della questione e ti chiedo semplicemente se quando hai realizzato di essere fuori al 100% è stata più grande la delusione per quanto accaduto o l’orgoglio per quei 22 anni e per quanto avevi creato?

«Senza dubbio l’orgoglio di aver fatto cambiare rotta in maniera effettiva alla pallacanestro europea. Nel 2000 c’era un discorso che definirei individuale. Una squadra trovava un’avversaria un anno ed un’altra quello seguente, non c’era sistema perché era una competizione, non una lega. Il nostro grande cambiamento è quello di aver portato le cose ad essere interesse di tutti, appunto quello che deve essere una lega. Se una squadra va male non può essere un problema individuale, deve essere collettivo. Gianluigi Porelli, un amico, fu molto d’aiuto ed appoggio nella visione che avevamo, nel guardare oltre all’individualità dei problemi».

Hai nominato l’Avvocato Porelli, uno che per migliorare la qualità di un campionato italiano diede in prestito Marco Bonamico a Milano…

«Tipicamente suo, un uomo con una visione che andava oltre al singolo club e che coinvolgeva veramente il bene comune».

«L’orgoglio per quanto fatto in 22 anni è certamente superiore a qualsiasi controversia»

Ma quindi cos’è successo per questo cambiamento di rotta che ha portato alla fine del tuo mandato?

«Cosa è successo? Credo che si possa definire paura. Proprio il contrario di quello che pensava uno come Porelli. Paura e non visione. Un dato che spiega la paura? Asvel e Bayern erano stati accettati da tempo come nuovi azionisti: c’è voluto un sacco di tempo per rendere effettiva la loro presenza. Si usciva dalla “comfort zone” di alcune dirigenze, si aveva paura forse della lega chiusa a 18 o 20 squadre, paura di più partite etc. Il passo successivo era vissuto come rischioso e fuori da quel territorio confortevole».

«Io non voglio fare nessuna polemica, è finita e lo accetto senza problemi. Grazie ad un team di persone molto capaci siamo arrivati fino a qui, da solo non sarebbe stato minimamente possibile. Abbiamo superato la crisi pandemica arrivando ad un business da 100 milioni, abbiamo firmato un accordo storico coi giocatori che non ha nemmeno il calcio, c’era una “road map” per il processo evolutivo ma è finita. Ripeto, l’orgoglio per quanto fatto è ben superiore a qualsiasi controversia».

Se posso fare una critica, mi pare che troppo spesso i club siano chiusi nei rapporti con la stampa, troppo difficili da contattare e poco disposti a mettere a disposizione dei media i protagonisti. Tutto ciò, a mio parere, non ha giovato alla popolarità della competizione. Si guarda sempre alla NBA ma in quel caso i giocatori sono “obbligati” da una lega forte a fare determinate cose ed a partecipare a parecchie iniziative che qui non si sono mai viste. La gente vorrebbe conoscere molto di più dei giocatori, ben oltre il rendimento sul campo. E’ mancata un po’ di forza della lega oppure è un errore dei club?

«Ti faccio io una domanda: che ruolo ha un allenatore NBA rispetto ad uno di Eurolega?».

Beh, ti risponderei così, in modo semplice: Budenholzer è molto meno importante di Giannis, mentre Obradovic lo è molto di più di un De Colo o di tanti altri campioni da lui allenati.

«Ecco, quella differenza di ruolo è parte della risposta. E’ vero che i club sono chiusi e lo sono perché qui si crede che 10 minuti tolti ad un allenamento siano impossibili da accettare, perché si viaggia tanto, si gioca tanto etc.  Tutte cose che ai Coach danno fastidio e questo fastidio lo trasmettono agli addetti stampa i quali di conseguenza chiudono ai media. 

10 anni fa organizzai un incontro con gli allenatori per spiegare l’importanza dell’aprire gli spogliatoi dopo la partita. Alcuni mi dissero ok, ma solo per la quadra vincente. Ma no, dissi, la notizia è fatta da chi vince e da chi perde…

In ogni caso abbiamo provato sempre a crescere, tra Media Day ed altri contenuti. Negli ultimi 5 anni l’80% di questi contenuti riguardanti i giocatori è stato fatto fuori dal campo, per avvicinarli alla gente che, come dici tu, vuole sapere tante cose oltre al rendimento sul parquet. E’ un processo necessario ma è ancora difficile».

«Togliere 10 minuti di allenamento ad un giocatore per promuovere un contenuto è una situazione che dà fastidio ai Coach. Così i club si chiudono ai media ed al pubblico che vorrebbe conoscere di più dei protagonisti».

Prima ho criticato, ora invece mi permetto un complimento che sfocia in una domanda. Si sono criticati a lungo gli arbitri di Eurolega, poi l’ultimo Eurobasket ha chiaramente dimostrato come si tratti dei migliori rispetto ai disastri che abbiamo visto nel torneo continentale per nazionali… Detto che il livello mi pare ottimo, non trovi però che ci sia un problema di ricambio generazionale, coi grandi vecchi un po’ distanti dai nuovi arrivati?

«E’ un problema, il ricambio, che ci sarà sempre, ovunque. Ogni 3 o 4 anni abbiamo cambiato il 30% degli arbitri. Abbiamo stabilito un percorso che partisse da Eurocup ed abbiamo messo in pratica un sistema di scouting sugli arbitri molto efficace con Richard Stokes. Non vedo grossi problemi».

Final 4

#everygamematters è il motto di Eurolega. Poi arriva l’Efes, ma anche altre squadre prima,  e ci dimostra che sì, ogni partita conta, ma che in realtà quelle che contano davvero sono ad aprile e a maggio. Non ti pare che troppi allenatori diano un peso eccessivo alle gare di stagione regolare per poi arrivare corti quando si decide la stagione?

«Il problema è il “corto plazo”, il breve termine. Qui se perdi tre o quattro gare di fila iniziano voci e polemiche. Ci vorrebbe, anche qui, una visione non legata al solo risultato».

«Il valore commerciale delle squadre oggi è stabilito da quanto spendono per i giocatori. Se non si accettano regole che mettano ordine alla concorrenza parlare di “break even” diventa impossibile»

Uno dei problemi di cui si parla ormai da anni è la sostenibilità finanziaria dei club e dell’intera lega. Ma è veramente raggiungibile o siamo troppo diversi in Europa da quella NBA a cui guardiamo sempre come esempio?

«Sono assolutamente convinto di sì. Partiamo da due cose che è necessario menzionare e che per me sono negative. Qui la cosa che conta di più è vincere, rispetto alla NBA, ed inoltre un sistema di controllo da parte della lega non è gradito.

Alcuni club preparano il budget delle spese e successivamente quello delle entrate… Poi sono in perdita e danno la colpa ad Eurolega che non gli garantisce introiti sufficienti per coprire quelle perdite.

Il valore commerciale delle squadre è stabilito da quello che spendono per i giocatori.

La lega è qui per gestire in maniera comune ma non vuol dire che debba per forza darti la cifra che tu perdi come club.

Serve cambiare mentalità, capire che vincere non è l’unico criterio da prendere in considerazione. Bisogna credere nel sistema e se questo presenta un Fair Play finanziario non lo si deve vedere come una limitazione. Se non si accettano regole che mettano ordine alla concorrenza parlare di “break even” diventa impossibile. 

Il valore di EL, oggi a 100milioni, è il 70% in più rispetto al 2015/16. Quello delle squadre è cresciuto del 30%…

Servono i nuovi mercati, UK, Francia e Germania, alcuni già introdotti, altri in corso d’opera, come le due squadre di Eurocup che giocano a Parigi e Londra, due città che devono avere un futuro in Eurolega».

Anche in questo mercato le “big” si sono rivolte maggiormente a giocatori con già grande esperienza in EL, senza guardare ai giovani oppure a profili “nuovi”. Mi lego a questo dato di fatto e ti chiedo se hai pensato ad un accordo con la NBA visto che è così forte, compresa la G-League che mangia tantissimi giocatori potenzialmente “da Eurolega”… Ricordo di averlo chiesto ad Edu Scott a Vitoria nel 2019 e la risposta fu che non ci fosse un grande interesse da parte della lega americana.

«In una Pasqua di diversi anni fa incontrammo David Stern a New York e presentammo una proposta a riguardo, anche sulla base di dati che ci dicevano che tanti giocatori persi troppo presto da Eurolega poi si rivelavano persi anche in ottica NBA, senza sfondare, ed al ritorno in Europa facevano molta fatica. Stern ci disse che era difficile trovare un accordo perché c’erano tanti problemi a livello di giocatori NBA, erano i tempi dello sciopero. Vuoi la realtà? La NBA ha sempre preso i giocatori quando ha voluto farlo, presentando delle offerte finanziarie impossibili da pareggiare per i nostri club».

Nella  tua nuova veste di osservatore esterno, una cosa che fa abbastanza effetto dire dopo tanti anni, come vedi il potenziale arrivo delle forze finanziarie dal mondo degli Emirati Arabi in un futuro che pare più vicino di quanto si pensi?

«In modo positivo. L’Eurolega è sempre stata innovativa, arrivando a tante cose prima degli altri, calcio compreso. Avere una o due squadre fuori dal contesto europeo credo sia una buona opportunità. Però ci deve essere un progetto serio dietro, questa è la parte più importante da verificare. Ho iniziato a parlare con loro a febbraio, abbiamo continuato il discorso alle Final 4. Ecco, il tema delle Final 4 in quelle località va valutato nel caso con grande attenzione».

Mi piacerebbe che facessi un bilancio e che in un gioco semplice mi indicassi una cosa che hai fatto di cui sei molto fiero ed un’altra che avresti voluto fare e che senti di non aver raggiunto.

«In realtà sono due facce della stessa medaglia.

Di certo l’orgoglio di aver creato una lega europea vera e propria che non fosse solo una competizione. Un sistema di tutti come una vera lega deve essere, dove tutti sono coinvolti.

Un traguardo non raggiunto è quello di non essere riuscito a completare il lavoro che avrebbe portato all’allargamento del numero di mercati, da 13 a 18 o 20 squadre con licenza».

Dopo 22 anni inizi una stagione senza il ruolo di CEO di Eurolega: in Italia si dice “cosa farai da grande”… Quindi cosa c’è nel futuro di Jordi Bertomeu? Un club magari, una lega nazionale?

«Mi godo un po’ di riposo ma non sono capace di farlo troppo a lungo. Vorrei che 22 anni come quelli vissuti al timone di Eurolega potessero essere utili ad aiutare altri dirigenti e nuove situazioni. Io ho avuto molta fortuna nella vita e vorrei condividerla potendo dare il mio contributo anche in altri mondi, non necessariamente la pallacanestro. In Eurolega siamo cresciuti tutti. Hai menzionato Edu Scott, che è arrivato da noi poco più che ventenne quando faceva le fotocopie, ed ha raggiunto un ruolo chiave nella nostra organizzazione.

Ora è tempo di valutare cosa posso fare e dove posso farlo. Un club? Ho lavorato 36 anni per i club ma mai in un club, chissà…».

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alberto marzagalia

Due certezze nella vita. La pallacanestro e gli allenatori di pallacanestro. Quelli di Eurolega su tutti.
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