La difficile risalita del Barcellona

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Més que un club.

Una frase, un motto, un senso di appartenenza: Més que un club non sono solo quattro parole, ma un qualcosa di più, che lega il Barcellona e la Catalogna, le squadre e il popolo catalano. Impossibile non accorgersene visitando la città: è una scritta che campeggia un po’ ovunque, specie nella zona nevralgica dove il Barcellona stesso ha il suo quartier generale. Sulle tribune del Camp Nou, fuori dal Palau Blaugrana, dove si può annusare il sentimento di passione e appartenenza che lega come un filo indissolubile le squadre di calcio, basket e pallamano alla città, alla Catalogna.

E proprio il senso di appartenenza è qualcosa che sta mancando alla squadra di pallacanestro, impegnata in una difficile risalita dopo il ciclo vincente di Xavi Pascual. Georgios Bartzokas lo scorso anno le ha provate tutte, per stimolare quell’appartenenza alla maglia nei suoi giocatori. Niente da fare, l’allenatore greco, individuato per costruire un piano di crescita e vincente triennale ha fallito: via al termine della prima stagione, in cui non è riuscito a imporsi né in campo nazionale, né in Europa, dove ha mancato l’accesso ai playoff. E allora è cominciata l’era Sito Alonso, allenatore emergente reduce dalle grandi stagioni con Bilbao e Baskonia, nei Paesi Baschi, un altro luogo mitico, dove l’appartenenza è fondamentale. E con lui, roster completamente rinnovato, con acquisti sulla carta in grado di riposizionare i blaugrana sulla mappa del basket europeo.

UNA TRANSIZIONE DIFFICILE E IL SOGNO JASIKEVICIUS – Per il momento anche la gestione Alonso ha riservato poche soddisfazioni, perché in ACB i catalani sono costretti a inseguire le squadre di vertice e in Europa si ritrovano nei bassifondi della classifica. Una situazione quasi surreale, per il secondo anno consecutivo: una squadra abituata a competere con il Real Madrid in Spagna e con le squadre di maggiore talento in Europa non può permettersi di rimanere indietro. Non adesso, non in questo momento storico. Ma la mancanza del senso di appartenenza sta giocando un brutto scherzo al Barcellona.

Non è un caso, non può esserlo, il fatto che il club abbia fatto carte false per provare a portare Sarunas Jasikevicius in panchina: il lituano, straordinario protagonista del ciclo vincente della squadra di Pesic a inizio anni Duemila, ha sempre definito Barcellona come la sua seconda casa. Lo ha anche scritto in “Vincere non basta”, la sua autobiografia: la capitale della Catalogna è il luogo in cui passa le sue vacanze, un posto magico per lui. Ma i matrimoni si fanno in due e le circostanze lo hanno portato a compiere altre scelte a livello professionale, almeno per il momento. Jasikevicius incarna il perfetto stile catalano: tosto e duro, ambizioso e pronto a fare sacrifici. La storia ha sempre detto che il Real Madrid è la squadra élitaria della Spagna, il Barça ha sempre dovuto imporsi, rivoluzionare per potere ottenere gli stessi successi. Perché vincere in Catalogna ha un sapore diverso, dà un gusto e una soddisfazione non replicabili a Madrid: l’eterno duello tra le due grandi di Spagna ha contraddistinto calcio e pallacanestro, anche se negli ultimi anni i blancos sembrano avere preso il sopravvento.

CRISI TECNICA: UN MERCATO DELUDENTE – Sito Alonso non ha grandi colpe della situazione attuale: certo, nessuno si sarebbe aspettato di trovarsi in una situazione così complessa in questo momento della stagione, ma al tempo stesso la campagna acquisti estiva si è rivelata quasi fallimentare. Se Kevin Seraphin, pure tra alti e bassi, si sta dimostrando un acquisto azzeccato, gli altri arrivi stanno tradendo le attese, a cominciare da Adam Hanga, protagonista della telenovela estiva più lunga e contorta del mercato: l’ala ungherese non è e non sarà mai un giocatore da 15/20 punti di media, ma nemmeno la copia sbiadita del giocatore che è stato al Baskonia nelle ultime stagioni. Vero che passare da giocare a fianco di Larkin-Beaubois a Heurtel e una guardia del roster catalano cambia molto, perché le caratteristiche del playmaker francese sono molto diverse da quelle del fuoriclasse americano volato a Boston in estate. Ma è anche vero che nemmeno nella metà campo difensiva Hanga sta rendendo per il suo valore.

Detto di Seraphin e Heurtel, le note liete, si passa alle note dolenti: Phil Pressey è spesso sembrato un corpo estraneo alla squadra e Alonso ne ha progressivamente limitato l’impiego. Lo stesso Rakim Sanders è stato più volte fuori dai 12 in Europa per via di un rendimento altalenante, fenomeno già noto nella sua esperienza milanese, costringendo Alonso a reinserire Victor Claver nelle rotazioni.

C’è un dato che impressiona in Europa: quando subisce più di 80 punti il Barcellona perde. Sempre. Costantemente. In questa stagione è accaduto così. E non è bastato avere 26 punti di vantaggio contro Bamberg dopo il primo quarto per portare a casa la vittoria. O recuperare 25 punti al Baskonia dopo essere naufragati per quasi trenta minuti. Gli attacchi europei mediamente segnano tutti una cifra vicina ai 75 punti, alcuni più di 80, il CSKA quasi 90. Eppure proprio i russi sono stati tenuti a soli 72 dalla difesa catalana nella prima giornata di ritorno. Sintomo che le qualità ci sono. Ma manca l’appartenenza alla maglia, la voglia di lottare, di sputare sangue, di sacrificarsi per arrivare alla vittoria.

LA RICERCA DI UN’IDENTITA’ – Vero è che nella pallacanestro moderna nessun giocatore può essere sicuro di legarsi a vita o per più anni a una squadra, ma al tempo stesso il Barça alla prima difficoltà si scioglie, deraglia, cade. Il gioco dei catalani è spesso ristagnante, privo di idee: un problema che l’allenatore non è riuscito a risolvere e che sta portando grossi problemi alla squadra. Tanto che gli sprazzi migliori dell’ultimo periodo, in cui i catalani hanno iniziato a ingranare di più siano arrivati con Navarro e Tomic in campo, due della vecchia guardia, due che sanno vincere e hanno idea di cosa sia il sacrificio. Il capitano di tante battaglie, anche non avendo più di 15/20 minuti nelle gambe ad alto livello, incarna perfettamente lo spirito, l’appartenenza, il valore del més que un club: lo ha tatuato nel cuore, scritto nella mente, presente in ogni centimetro del suo corpo. E vederlo soffrire per le difficoltà e i problemi dei compagni, i risultati negativi dovrebbe stimolare gli altri a fare di più. Il centro croato, spesso criticato per un atteggiamento soft che peraltro lo ha contraddistinto per tutta la carriera, nelle ultime giornate sta trovando maggiore spazio e fiducia, ripagando con prestazioni di buon livello: il valore del giocatore si conosce, diventare un duro vero non è più possibile, ma il senso di appartenenza presente anche in lui lo porta a cercare di reagire alle difficoltà. Al Barcellona mancano altri Navarro e Tomic, che sappiano accendere la squadra nei momenti di difficoltà.

Il senso di appartenenza è qualcosa che o si ha dentro o si acquisisce. E acquisirlo è l’unico modo per tornare ad essere competitivi. Ma non è un processo facile né immediato. Perché, così come i Morcheeba cantavano “Rome wasn’t built in a day” allo stesso modo la ricostruzione del Barcellona deve passare attraverso tappe intermedie, ma nel minore tempo possibile. Altrimenti, la risalita sarà lunga e difficoltosa.

 

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